venerdì 4 luglio 2008

Genova e il '68



Per chi a metà degli anni Novanta giocava nei giardini di via Digione, il contatto più diretto con il Sessantotto era quella che chiamavamo «cava». Si trattava, in realtà, dei ruderi sventrati dalla frana del 21 marzo 1968, il simbolo di quell'urbanizzazione selvaggia che aveva cambiato per sempre il volto di Genova.
Il '68 e la nostra città: un binomio che spesso mi ha incuriosito e che trova oggi compiuta realizzazione in 'Genova, il '68. Una città negli anni della contestazione', libro a cura di Donatella Alfonso e Luca Borzani, ricostruzione degli avvenimenti più significativi di quel periodo e che raccoglie le testimonianze di chi attivamente vi ha partecipato, fra tutti spicca il contributo di Dario Fo.
Un Sessantotto, quello genovese, che diversamente dall'immaginario collettivo, non si caratterizza esclusivamente per la protesta studentesca, ma anzi, per una molteplicità di esperienze che forse non ne ha consentito il ricordo nella memoria collettiva della città. «La contestazione – sottolinea Borzani – ha coinvolto molti settori, componenti diverse che non hanno saputo coordinarsi e che hanno avuto un effetto relativo sulla visibilità della città. L'immagine di Genova capitale delle Brigate Rosse, ha poi azzerato la complessità degli anni '60, compreso il Sessantotto».

Edito dalla Fratelli Frilli Editori, questo è il primo libro ad affrontare frontalmente il periodo della contestazione nel capoluogo ligure. «Volevamo capire le radici del rapporto tra Genova e la sinistra», sottolinea Donatella Alfonso. «L’idea era quella di un libro che andasse dagli anni ‘60 agli anni ‘80, ma sarebbe stato qualcosa di estremamente complesso. Abbiamo scelto il ’68, un momento di vera rottura. Nella nostra città – continua – quell’anno non si esaurì nella contestazione studentesca, anzi, a dire il vero quello fu un aspetto marginale. Fu l'anno di massima espansione demografica, il porto doveva fare i conti con gli effetti della containerizzazione, mentre le colline con l'invasione del cemento. L’Italsider scendeva in piazza per la prima volta, e il dissenso cattolico faceva sentire la sua voce con il movimento di san Camillo».

La città di quel periodo è quella del sindaco democristiano Pedullà, incerta sul proprio futuro e in piena deindustrializzazione. Sono gli anni dei primi successi di Fabrizio De Andrè, della nascita di Corto Maltese e della rappresentazione al Teatro Stabile delle Baccanti di Euripide nella traduzione di Edoardo Sanguineti. Ma è anche la città medaglia d'oro per la Resistenza, anticipatrice del nuovo protagonismo giovanile e che, alle elezioni del maggio '68, vede la conferma del Pci a primo partito cittadino. Una città storicamente ribelle, ma che vive un Sessantotto in tono minore: «a Genova – ricorda Alfonso – c’erano tre poteri conservatori: l’industria di Angelo Costa, la missione pastorale del cardinal Siri e il Partito Comunista».
Le prime occupazioni risalgono al dicembre 1967, ma la mobilitazione studentesca, eccezion fatta per gli scioperi all’ Asgen e alla Chicago Bridge, non riuscì a saldarsi con le istanze operaie. «L’esperienza dell’Asgen – continua Donatella Alfonso – è un fatto unico: per la prima volta gli studenti si occuparono della salute in fabbrica, per la prima volta gli operai si unirono agli studenti».

Ma a quarant’anni di distanza, di quel periodo di partecipazione cosa rimane oggi?
«Il ’68 – risponde Borzani – è stato una vittoria culturale, ma una sconfitta politica. Un periodo di rottura che ha accelerato il processo di modernizzazione già in atto nel nostro paese, ma la distanza che allora separava i giovani dai propri genitori, oggi è aumentata. Quella era una generazione che si identificava nella categoria stessa dell’essere giovani e dell’affermazione di sé, che tendeva a farsi coincidere direttamente con il futuro. Oggi – continua – i giovani sono invisibili nei loro linguaggi e comportamenti e forse la colpa è anche degli adulti: troppo a lungo continuano a considerarsi giovani. Mentre allora ci fu una riscoperta della politica che portò ad un nuovo tipo di impegno, oggi assistiamo ad una depressione del fare politico, una situazione che unita alla dimensione di consumo, alla povertà o all’eccellenza culturale, getta le nuove generazioni in una condizione di stand by, dove le prospettive per il futuro sono poche».

Le giovani generazioni vivono un presente non facile, quali le differenze tra ieri e oggi?
«Nel ’68 – risponde Donatella Alfonso – c’erano dei diritti da stabilire, la volontà di appropriarsi del mondo. Ai giovani del 2008 mancano forse obiettivi da raggiungere, delle barriere da abbattere e forse un po’ di coraggio. Insomma mancano i padri a cui ribellarsi, ma non può essere solo colpa dei genitori se i figli non hanno una figura a cui rivoltarsi».

Umberto Galimberti scrive che i giovani oggi sono nichilisti. Ma è proprio vero?
«Sicuramente – risponde Borzani – siamo di fronte ad una dispersione del senso collettivo, un nichilismo che prima di essere dei giovani è dell’intera società».

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