giovedì 31 luglio 2008

Frasi da 'Il cavaliere oscuro'


Ricevo da Alessio e inserisco nel blog alcune frasi tratte da "Batman-Il Cavaliere Oscuro":

"O muori da eroe o vivi tanto a lungo da diventare il cattivo"

"Mettiamo un sorriso su questa faccia"

"La notte è più buia prima dell'alba e ve lo prometto...l'alba sta per arrivare!"

"Chissà! Forse siamo destinati a lottare per sempre!"

"L'unica regola della vita, è vivere senza regole"

"Senza di me non sapresti più che fare. E io senza di te non mi divertirei più. Ecco perchè non ci uccideremo mai"

"La follia è come la gravità, basta una piccola spinta"

"Sono come un cane che insegue un automobile. La inseguirò di continuo, ma quando la prenderò non saprò cosa farmene"

"Ecco cosa succede quando una forza irrefrenabile incontra un oggetto inamovilibe."

"Non voglio ucciderti. Tu mi completi."

"...sai qual è il bello del caos?...è che è equo!"

"Volete vedere come faccio sparire questa matita?"

"Sono il professionista del caos!"

"Se sei bravo a fare una cosa, mai farla gratis!"

"Certi uomini vogliono solo vedere bruciare il mondo."

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martedì 29 luglio 2008

Indovina chi?

Ripropongo il testo di El presidente, una vecchia canzone dei Modena City Ramblers. Credo che ogni commento sia superflo. Nulla cambia.

El Presidente
Non si fanno conti in tasca (money)

a El Presidente
E' una storia già sentita (mentira)
e poi non è importante
Le lobby e gli interessi (offshore)
sono l' invenzione
Di quei giornalisti(audience)
e dell' opposizione
Non dovete usare leggi(impeachment) contro El Presidente
Le minacce di un complotto (golpe)
vanno prese seriamente
Il suo volto per la strada è sicurezza e garanzia
Di chi con i suoi uomini cammina sulla via
Del Miracolo Economico che trasmetterà
Il segno di El Presidente sulla società

El Presidente,lo sai, vede,provvede, non sbaglia mai!
El Presidente, lo sai, con la sua squadra risolve i guai! (2 volte)

Non potete dare colpe (alah) sempre
a El Presidente
Per ogni problema (trust) lui è qui presente
Il nostro Presidente (caid) è uno che lavora
Con la Democrazia,(freedom)il pubblico lo adora!
Le promesse che ci ha fatto rappresentano la sfida
Di un Paese che in passato ha conosciuto la deriva
Date solo un po' di tempo per il risultato
Chi lo ha sostenuto verrà ricompensato

El Presidente,lo sai, vede,provvede,non sbaglia mai!
El Presidente,lo sai,con la sua squadra risolve i guai! (2 volte)

Ogni guerra è santa (war) per il suo Ideale (right war)
Ogni causa è giusta per il suo giornale
Per la tua casa nuova c'è la sua immobiliare
la sua finanziaria per le rate da pagare
I cinema proiettano ogni film di El Presidente
Nel centro commerciale trovi il saldo conveniente
Sul campo la sua squadra di frequente è la vincente
Nei sondaggi la fiducia è consistente

El Presidente OPERAIO
El Presidente NOTAIO
El Presidente INSEGNANTE
El Presidente CANTANTE
E' ALLENATORE
El presidente
E' GIOCATORE
AMBASCIATORE
El presidente
IMPERATORE
El Presidente PETROLIERE
El Presidente CONSIGLIERE
El Presidente SOLDATO FILOAMERICANO
El Presidente PACIFISTA

EL PRESIDENTE KOMUNISTA !!!

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lunedì 28 luglio 2008

A confronto con Guevara


Il 9 ottobre 1967, in Bolivia, moriva Ernesto Guevara De la Serna. Lo stesso giorno di 41 anni fa, a La Hilguera, nasceva il mito del Che. Icona della generazione sessantottina, la vicenda storica e personale di Guevara, ancor oggi si interseca con quegli aspetti sacrali che la società di consumo ha spesso imprigionato in bandiere e magliette. Guerrigliero, soldato e ribelle, il mito del Che rappresenta per molti, e anche per chi scrive, l'anelito libertario di chi decide di sacrificare tutto per un ideale (vita compresa). Simbolo di equità e giustizia sociale, oggi come allora, incarna esigenze di riscatto per tutti coloro che vivono esistenze oppresse.

Aldilà del mito, il Che fu soprattutto un essere umano e, come tale, commise degli errori. Indagare e raccontare il mito nei suoi molteplici aspetti, è l'obiettivo di Dario Fertilio, autore del romanzo La via del Che. Il mito di Ernesto Guevara e la sua ombra (Marsilio Editori). «Il mito – sottolinea l'autore – influenza spesso la storia. Il Che rischiava di persona, si esponeva e il modo migliore per conoscere tutte le sue facce, è raccontarle. Affrontare la molteplice contradditorietà di Guevara in tutte le sue dimensioni, è un modo per mantenerne vivo il mito».

Protagonista della vicenda quasi interamente ambientata all'Avana, Riccardo Modena, direttore editoriale, ex sessantottino con un passato da guevarista, oggi disilluso e alla ricerca dei diari mancanti del Che. «La scelta del genere letterario – rivela l'autore – oltre ad essere dettata dall'ammirazione per il romanzo alla Hemingway, da un lato è funzionale all'esigenza di unire un reportage sulla Cuba di oggi, dall'altro si unisce all'intento di raccontare le aspettative tradite della generazione sessantottina». Riccardo è un uomo stanco, detesta il Natale, le vacanze e continua a vivere un matrimonio ormai esaurito da tempo. Ha creduto nella rivoluzione cubana, ma oggi è convinto che la via del Che non esistesse.

Tra questa disillusione e l'ortodossia del guerrigliero argentino, è possibile una via di mezzo?
«Riccardo Modena – risponde l'autore – è vissuto, si è evoluto, mentre il Che è morto giovane dopo aver dato tutto per la causa in cui credeva. Indubbiamente la posizione migliore tra l'utopismo di Guevara e la disillusione di Riccardo, sarebbe quella di affrontare criticamente il mito, recuperando anche gli aspetti più negativi. Il protagonista del romanzo – continua – ha vissuto intensamente il '68 e, forse, proprio per questo motivo ha ripudiato ciò in cui credeva: troppo doloroso il ricordo del fallimento giovanile. Chi invece ha incontrato il Che più tardi, oggi lo ama».

Sulle pagine del Manifesto, Enzo Di Mauro ha descritto il libro come una storia di agnizione e liberazione interiore dai miti e dai simboli della giovinezza. «Sono d'accordo – ribadisce Fertilio – nel libro c'è questa voglia di confrontarsi con i miti della propria giovinezza e scoprirli falsi. Dal punto di vista politico il messaggio del Che è stato una catastrofe, paragonabile a quello di Trotzky. Ma dal punto di vista personale, il fatto che abbia dato la vita per un ideale, paragonabile per impegno a san Francesco o Garibaldi, ebbene, questo lo rende ancora vivo. Impegnarsi come lui, ma non per le cose che ha scelto».


Scrive Eduardo Galeano: «L'utopia è come l'orizzonte: cammino due passi, e si allontana di due passi. Cammino di dieci passi, e si allontana di dieci passi. L'orizzonte è irraggiungibile. E allora a cosa serve l'utopia? A questo: serve a continuare a camminare». Chiedo a Fertilio: conviene perseguire l'utopia?
«Se individuale – risponde – aiuta a crescere e cambia la vita. Se l'utopia è collettiva, diventa una falsa certezza. John Lennon cantava I don't believe».

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sabato 26 luglio 2008

Che bel Joker


Non esiste bene senza male, non esiste Batman senza Joker. Il nuovo capitolo della saga, Il cavaliere oscuro, è probabilmente il miglior film mai realizzato sull'uomo pipistrello. Non una semplice trasposizione dal fumetto, ma un lungometraggio di contenuto e riflessione. Il Joker di Christopher Nolan, nella perfetta interpretazione di Heath Ledger, è un personaggio complesso, che completa l'alter-ego mascherato di Bruce Wayne. Se Batman rappresenta gli ideali di giustizia e ordine, il Joker incarna il caos più assoluto. Con le sue azioni, totalmente scevre da qualunque finalità, sottolinea la fragilità di tutte le convenzioni sociali: qualunque norma, se minacciata dal non-senso, risulta effimera, inutile.

Un esteta anarchico, a metà tra Il Corvo di Brendon Lee e Alex di Arancia Meccanica, che agisce solo per il gusto di perseguire l'azione. Totalmente irrazionale, non aspira veramente ad uccidere Batman, ha bisogno di lui. Necessita di regole per infrangerle, per sottolineare la loro convenzionalità. Un personaggio che sembra uscito dalla penna di Gide, che commette crimini nè per bisogno, nè per passione: la cui «ragione di commettere il delitto è appunto quello di commetterlo senza ragione». Nichilista nel vero senso del termine, attua una reale trasvalutazione di tutti i valori. Il fuoco che lo agita ha l'odore del dionisiaco, è un criminale solo per chi lo giudica. Vive in un mondo rovesciato, diametralmente opposto ma dannatamente contiguo a quello di Batman. Ma, per esistere, hanno entrambi bisogno uno dell'altro. La loro, è la classica dicotomia tra bene e male. In una società senza certezze, il Joker rappresenta le nostre paure: raramente, però, è stato così bello parteggiare per il nemico.

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martedì 22 luglio 2008

I figli sono pezz 'e core

Da genitore posso capire, ma non approvare, la contrarietà dell'On. Bossi per la seconda bocciatura alla maturità di suo figlio, e le conseguenti invettive sugli insegnanti. In genere i genitori non riescono mai, o raramente, ad essere obbiettivi sugli insuccessi scolastici dei figli: è quasi sempre colpa degli insegnanti, non dei figli che non hanno studiato. Per i genitori i figli sono sacri e per loro si vorrebbe un futuro radioso. Non conosco l'On. Bossi, ma, sotto la sua scorza da duro si deve nascondere un padre attento e premuroso come lo sono la maggioranza degli italiani e dei padani.
Ma la bocciatura non dovrebbe preoccuparlo più di tanto, perchè essere figlio di un ministro è un ottimo curriculum per il giovane Renzo che, sicuramente, non incontrerà difficoltà nel procurarsi un'occupazione.
Noi poveri mortali, invece, non riusciamo ad arrivare al 20 del mese. Abbiamo fatto studiare i nostri figli che amavano lo studio e ci ritroviamo con ragazzi laureati con il massimo dei voti ma disoccupati. Oppure a lavorare gratis, o, bene che vada, con un rimborso di 150 euro al mese. Questa è la reatà dei giovani in questa Italia. Ma già, come dice Cettolaqualunque (Antonio Albanese): «in questo Paese i giovani sono un problema non una risorsa».

Maddalena Sciarrone

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domenica 20 luglio 2008

6/1/ sfigato

Nel 1992 gli 883 cantavano: «Fingi di essere come Berlusconi, pieno di ragazze e di milioni».
La canzona era 6/1/ sfigato, un testo simpatico e dissacrante su quella che all'epoca era la tipica figura dello yuppie. Cellulare alla mano, quando averne uno era considerato status symbol, panfilo a Montecarlo, occhiali da sole, aria da grande attore e jet set. Chi mai avrebbe pensato, a 14 anni di distanza, che le parole di Max Pezzali potessero rivelarci molto sulla natura dell'attuale presidente del Consiglio? Nessuno, credo. Eppure i fatti recenti ci restituiscono proprio quell'immagine: bandana o panama in testa, Ronaldinho al Milan per milioni di euro, raccomandazioni per giovani attrici affrante, affari di famiglia sulle colonne dei giornali e donne da copertina in Consiglio dei Ministri. Italian Style. Wikipedia alla voce Mara Carfagna cita: politica e showgirl italiana. Ho i brividi.

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sabato 19 luglio 2008

Il 'Quarto Tempo' di Cacciapaglia

Quando per la prima volta ho ascoltato la musica di Roberto Cacciapaglia ho provato una sensazione difficilmente descrivibile. Accompagnata ad un vigoroso senso di potenza, era una dolce tristezza, una piacevole malinconia. Nel medesimo istante mi sono sentito fragile e forte, ho provato un intenso desiderio di unione, di congiunzione quasi carnale con il mondo circostante. Uno smarrimento che conduceva nella giusta direzione.

Prodotto con la collaborazione della Royal Philarmonic Orchestra, Quarto Tempo è l'ultimo album del compositore milanese. Quando ho alzato la cornetta per l’intervista ero emozionato. A rompere il ghiaccio è stata la curiosità, l’interesse per il significato del titolo dell’ultimo lavoro di Cacciapaglia.
«Il quarto tempo – spiega – è uno stato in cui passato, presente e futuro si annullano. Un modo per mettersi in contatto con la musica, per esprimere se stessi attraverso la melodia. Più è alta la coscienza del suono, più è possibile trasmettere a chi ascolta le emozioni provate».

La musica diventa quindi mezzo, veicolo per azzerare distanze, possibilità per oltrepassare barriere, in sostanza un punto di incontro. Le note esprimono le emozioni di chi le compone, mentre la musica che ne scaturisce ha il compito di farle giungere all’ascoltatore. Un’empatia dove alla musica spetta il ruolo di specchio: riflette l'io e lo fa conoscere al molteplice. Ma che valore ha il silenzio nel processo compositivo?
«Quando sono al pianoforte e compongo – risponde – prima di toccare la tastiera rimango fermo. Parto dal silenzio, la piattaforma da cui parte il suono. Entro in una dimensione in cui il livello di presenza permette di esprimere le emozioni più profondamente, da qui nasce il desiderio di sconfinare: la costante centrale del mio lavoro».

Oceano, Altlantico, Nuvole di luce, Seconda navigazione. Questi alcuni dei titoli di Quarto Tempo. Parole che evocano atmosfere ad ampio respiro, grandi aperture, incontri con il tutto circostante.
«Oceano – precisa – è sì un andare oltre gli ostacoli, un uscire dai limiti e dallo spazio. Ma non è soltanto uno sconfinamento esteriore, anzi, ha invece una forte valenza interiore: un viaggio nelle profondità dell’inconscio. La musica, spesso, è lo strumento più adatto per sondarne i meandri». Il mare, quindi, come metafora di libertà e ricerca interiore. Quale il rapporto di Cacciapaglia con Genova e la Liguria? «Ho suonato al Carlo Felice e Genova è una città bellissima. Ma c’è un luogo che più di altri mi ha colpito: la Baia del Silenzio a Sestri Levante.

Provo a rivelare, infine, le emozioni da me provate al momento dell’ascolto di Quarto tempo. Come accennato, il sentimento predominante è stata la malinconia, in un’accezione del termine, però, piuttosto dolce e positiva. Quanto è presente questo sentimento nel momento della creazione? «Più che malinconia, parlerei di nostalgia - risponde - ricerca dell’eternità. Un tentativo di recupero di quella perfezione profondamente insita nella natura umana. La musica ha anche questo compito - continua - far riflettere e ricercare. Sono convinto - conclude - che il pubblico si faccia giustizia da solo. Se la musica perde potere, è comprensibile che le persone non comprino dischi. Quando suonavano Beatles, Doors o Pink Floyd, non era così. Oggi le persone vogliono qualcosa di più dalla musica».

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venerdì 18 luglio 2008

Albanaia: un romanzo di guerra

L’Albanaia era la naia di Albania. Così l’avevano chiamata gli alpini, i soldati che parteciparono alla breve guerra che l’Italia fascista condusse contro la Grecia tra l’ottobre del 1940 e il giugno dell’anno seguente. Una piccola guerra tra italiani e greci, anticipazione della tragedia russa. Ma oggi, Albanaia, è anche il titolo del libro di Augusto Bianchi Rizzi (edizioni Mursia), un romanzo che trae spunto dal diario di guerra tenuto da suo padre, il medico militare Giovanni Bianchi, partito volontario per l'Albania con il battaglione Edolo.

Come sottolineato da Giorgio Galli nella prefazione, quella di Grecia «appare una guerra finita nel dimenticatoio, un modesto episodio dell’apocalittico Secondo conflitto mondiale». Una marginalità, che assieme ai trionfalismi del regime, ha finito per far dimenticare la realtà storica dei fatti.
Mal equipaggiati, mal armati, provati da fame, freddo e diarrea, i soldati italiani combatterono una guerra di trincea. La consistenza dell’ esercito greco, superiore in numero e armamenti a quello italiano, si rivelò ben diversa da quella dipinta dalla retorica fascista. Morava, Var i Lamit, Pupatit, Gur i Topit, Ikinas e Leskoviku sono soltanto alcune delle montagne in cui trovarono la morte oltre 13 mila soldati italiani. I dispersi furono 25 mila, più di 50 mila i feriti, 12 mila i congelati e oltre 52 mila i ricoverati in luoghi di cura. Questi i numeri di una guerra che l'Italia pagò a caro prezzo e che vinse in seguito all’apporto decisivo delle divisioni tedesche.

«Ma non doveva essere una passeggiata?», si chiede il tenente Guzzi detto Nico nelle pagine del libro di Bianchi Rizzi. E’ proprio da questo contrasto, dalla discrasia che nasce tra veridicità dei fatti raccontati e retorica di guerra, sottolineata dall’autore ad ogni inizio capitolo con passi tratti da Il Popolo d’Italia, che scaturisce il vero storico. «Lavorare su documenti originali – sottolinea l’autore – consente di essere rispettosi di ciò che è stato, se c’è attendibilità le pagine acquistano sicurezza storica. Altra cosa, invece, dal punto di vista letterario. Agire sulle pagine di un diario per crearne un romanzo è più complicato. Tra le altre cose, bisogna fare i conti con la qualità della dattilografia, mentre i caratteri dei personaggi non sono ben definiti».

Protagonista del romanzo è il tenente medico Vittorio Bellei, un fascista esemplare come recita il sottotitolo, partito volontario e lasciatosi alle spalle la giovane moglie e un figlio di 15 giorni. Crede in Mussolini ed è convinto di lottare per il futuro di suo figlio. Eppure, di fronte al suicidio del tenente Colajanni e agli interrogativi di Angelo Castelnuovo, anche le sicurezze del protagonista sembrano vacillare: «è difficile – pensa tra se – conciliare la realtà della guerra con i nostri sogni, i nostri credo».
«E’ un momento, un istante di piccolo dubbio – sottolinea Bianchi Rizzi – è bene ricordare, infatti, che il protagonista è cresciuto in un contesto storico che esaltava il senso del dovere, la mistica del sacrificio e il purismo dei comportamenti. C’è in lui un idealismo contro il vivere comodo e un po’ corrotto della vita borghese, che fa di questo momento solo un istante di esitazione. E non si può dimenticare – conclude – che chi viveva quell’esperienza aveva appena 26 anni»

In una guerra di trincea, le pagine restituiscono il logorio mentale e fisico del soldato. Periodi brevi, ma altrettanto espliciti, pongono il lettore di fronte a corpi scaraventati, braccia e gambe amputate e crani perforati dalle granate. Leggendo le pagine di Albanaia, torna alla mente Full Metal Jacket, capolavoro di Stanley Kubrick e violenta critica antimilitarista. L’effetto che il soldato Joker con il simbolo della pace all’elmetto suscita nello spettatore, è simile a quello che prova il lettore sfogliando le pagine del libro: romanzo di guerra, contro la guerra.
«Sicuramente – ribadisce l’autore – è un manifesto orripilante contro la guerra. Ma la cosa più insopportabile è che queste sono pagine di denuncia, ma per chi le ha vissute, non c’è stata alcuna conseguenza».

Giovanni Bianchi, alias Vittorio Bellei, dopo essere partito volontario col battaglione Monte Cervino per il fronte russo, rimase disperso fino al 1964. Era deceduto nella regione di Kirov il 9 marzo 19

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mercoledì 16 luglio 2008

Robert Kennedy sul Pil

"Non troveremo mai un fine per la nazione né una nostra personale soddisfazione nel mero perseguimento del benessere economico, nell'ammassare senza fine beni terreni.
Non possiamo misurare lo spirito nazionale sulla base dell'indice Dow-Jones, né i successi del paese sulla base del prodotto interno lordo (PIL).
Il PIL comprende anche l'inquinamento dell'aria e la pubblicità delle sigarette, e le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine dei fine-settimana.
Il PIL mette nel conto le serrature speciali per le nostre porte di casa, e le prigioni per coloro che cercano di forzarle. Comprende programmi televisivi che valorizzano la violenza per vendere prodotti violenti ai nostri bambini. Cresce con la produzione di napalm, missili e testate nucleari, si accresce con gli equipaggiamenti che la polizia usa per sedare le rivolte, e non fa che aumentare quando sulle loro ceneri si ricostruiscono i bassifondi popolari.
Il PIL non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione o della gioia dei loro momenti di svago. Non comprende la bellezza della nostra poesia, la solidità dei valori familiari, l'intelligenza del nostro dibattere. Il PIL non misura né la nostra arguzia né il nostro coraggio, né la nostra saggezza né la nostra conoscenza, né la nostra compassione né la devozione al nostro paese. Misura tutto, in breve, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta.
Può dirci tutto sull'America, ma non se possiamo essere orgogliosi di essere americani".

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giovedì 10 luglio 2008

Ormai è tardi

Pubblico l'intervento di Roberto sul 'No Cav'.

Piazza Navona rievoca momenti importanti nella storia dei movimenti di centro-sinistra. Da lì, il 02/02/’02 Nanni Moretti strigliò la dirigenza che aveva stra-perso le elezioni del 2001 e da quel momento cominciò, attraverso varie fasi, la grande nascita dei movimenti dei girotondi, che sarebbero diventati il più grosso baluardo contro la deriva berlusconista di quella legislatura (dando anche una scossa a un’opposizione fino a quel momento con l’encefalogramma piatto). Ho vissuto quei mesi con grande trasporto, partecipando attivamente.

La manifestazione di martedì scorso pensavo potesse riproporre una situazione analoga (e non solo per la sua ubicazione), con un risveglio della coscienza civile contro il Caimano e un contestuale risveglio di combattività delle opposizioni, parlamentari e non.

A certi interventi molto positivi, puntuali, centrati e più propriamente “politici”, come quello di Flores e di Travaglio, se ne sono affiancati altri secondo me deleteri, sia per mancanza di propositività, sia per essere andati fuori tema, sia per essersi realizzati come degli show a-politici, ma che hanno avuto solo la funzione di esaltare l’egocentrismo pseudo-artistico di chi era sul palco. Mi riferisco sia alla Guzzanti (è distante anni luce, per corrosività e preparazione, da Corrado) che a Grillo (anche gli interventi di Camilleri e Ovadia sono stati di pochissima presa e fini a se stessi).

L’attenzione posta sul Papa (assurda la corresponsabilità della sconfitta elettorale attribuita dalla Guzzanti al Papa, nonché la battuta sull’inferno; e gratuite e volgari sono state le battute sessuali sulla Carfagna) e su Napolitano (Grillo fa finta di non sapere che Napolitano può poco rispetto alle schifezze fatte dal governo; ha un ruolo delicato, sta esercitando come può la moral-suasion, ma sarà la Consulta, al limite, a dichiarare incostituzionali i vari decreti governativi e tramutate in legge da un Parlamento di dipendenti asserviti) ha prodotto due risultati:

  • mediaticamente, si è dato risalto non ai temi della manifestazione e alla partecipazione di quegli italiani che ancora hanno la forza di indignarsi, ma alla caciarate espresse.

  • politicamente, ha espropriato le vere ragioni di quella piazza, i motivi per cui decine di migliaia di concittadini si sono riuniti là; bruciandoli.

Oggi scrive Maltese su “Repubblica”: 'L'interesse delle persone di spettacolo a usare eventi politici a fini di popolarità e commerciali è insomma piuttosto evidente. Come dovrebbero essere chiare le analogie di meccanismo e di linguaggio fra queste tecniche e il populismo berlusconiano. Misteriosa è invece la ragione per cui i politici e gli organizzatori si prestino a queste operazioni di marketing, dalle quali hanno tutto da perdere. Paolo Flores ha il grande merito di aver avviato con la manifestazione del Palavobis del 2002 la stagione dei movimenti che, negli anni successivi, riempì le piazze italiane di milioni di persone. Da storico e filosofo di valore, può stimare lui stesso l'abissale distanza che separa la sobria e feconda forza politica del Palavobis di allora con la sguaiata impotenza di Piazza Navona. L'ultima adunata non avvierà una stagione di protesta. Al contrario, può aver contribuito a stroncarla sul nascere.”

Più in generale, lasciando da parte Piazza Navona, direi che trovo l’Italia un Paese immobile, fermo, come dice giustamente Francesco, a 14 anni fa, solo ogni giorno più volgare, aggressivo, amorale e dimentico.

Ho titolato questo post 'Ormai è tardi' perché credo che se i miei concittadini non riescono più a indignarsi per lo stupro delle istituzioni, della Costituzione, per un parlamento trasformato in un votificio e asservito a un Capo; per una separazione dei poteri, fondamento della democrazia, ormai svuotata di ogni senso, beh..credo che ormai B. abbia vinto. Abbia vinto nella coscienza della maggioranza, con i suoi modi eversivi (allucinante il suo recente discorso alla Confesercenti, da mettere i brividi..); con la sua campagna elettorale permanente, fatta di insulti per chi non la pensa come lui, di annunci detti e rimangiati dopo poche ore, di promesse disattese, di un sistema della comunicazione a lui asservito e che nasconde la realtà per mettere in mostra una sua distorsione.

Nulla ci scalfisce più. Nulla ci indigna più. Obliamo qualsiasi nefandezza che ci dovrebbe invece far rivoltare e scendere in piazza e, così stando le cose, B. stravince nel Paese.

Il tema centrale della vita politica italiana, e cioè il conflitto d’interessi, è stato derubricato. Questo ha falsato le ultime 4 elezioni politiche (sono ancora uno dei pochi che afferma che B. è al governo illegittimamente) perché c’era sempre un concorrente che partiva da posizioni di vantaggio enorme.

Soluzioni? Fino a qualche anno fa, ho sempre detto che l’unica soluzione sarebbe stata la sua morte. Ora ho paura che il berlusconismo, sopravviva a Berlusconi. Nei modi, nei costumi, nella forma-mentis che è riuscito a creare tramite le tv.

La speranza è ancora nelle centinaia di migliaia di italiani a lui opposti, ma che non hanno rappresentanza politica e che, alla resa dei conti, cioè nella gestione del potere, sono afoni e inesistenti. Leader capaci di sovvertire le cose non ne vedo.


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mercoledì 9 luglio 2008

Non sappiamo più ridere?

È da quando ho 17 anni che seguo le vicende politiche di questo nostro paese. Oggi ne ho 27 e mi pare che non siano stati fatti significativi passi in avanti. Berlusconi è oramai alla quarta legislatura, su di lui sappiamo tutto e purtroppo lo conosciamo bene.

Seguendo la manifestazione 'No Cav' in piazza Navona ho vissuto un deja vu: uso privatistico dello stato, impunibilità per le più alte cariche istituzionali, controllo dei media, leggi ad personam e norme razziste. Il cavaliere ha ripreso laddove aveva abbandonato due anni or sono. L' azione di governo segue un interesse ben preciso: il suo. Fa le stesse cose da 14 anni a questa parte. Se dopo il porcellum, la legge Gasparri, la legge Biagi e la Bossi-Fini, se dopo le violenze del G8 e dopo aver portato il paese in guerra, ebbene, se dopo tutte queste e altre nefandezze che non cito per esigenze di spazio, la maggior parte degli italiani ha votato per lui, significa che più di metà paese in lui si identifica e, di conseguenza, se lo merita. Di certo non rappresenta me, e questo mette in luce i limiti della democrazia: la maggioranza non sempre sceglie in modo razionale. Se siamo lo zimbello d'Europa qualche motivo ci sarà, la nostra classe politica è specchio di una società ormai avvilente. Anche cercandoli non riesco ad individuare modelli positivi e non mi rimane che trovare nell'unico la sola ancora di salvezza: una collettività che esprime l'attuale dirigenza politica non può che essere fallimentare.

Dopo che Sottile, il portavoce di Fini, ha scambiato la Farnesina per un bordello, oggi le intercettazioni telefoniche ci restituiscono un premier che dispensa gabinetti a seconda dei favori sessuali a lui somministrati. Ma non ce l'ho con Berlusconi. So chi è, lo conosco. Da lui non mi aspetterei azioni e pensieri diversi da quelli che attua o produce. Politicamente e umanamente è esattamente agli antipodi da me. Me la prendo, piuttosto, con la finta sinistra. Se il 'piazzista di Arcore' è ancora libero di devastare costituzione e paese, è perchè da più di 2 lustri Veltroni e compagni hanno commesso errori imperdonabili: quando uno sbaglio si ripete, la responsabilità è patente.
Ricordo bene l'ultima campagna elettorale: piatta. Veltrusconi era l'unica alternativa possibile. I due candidati premier si inseguivano sugli stessi temi e sulle medesime proposte. La sinistra, alla disperata ricerca di voti, si è dimenticata di essere alternativa alla destra, omologandosi così, già da diversi anni a dire il vero, alla proposta del cavaliere. E allora come non condividere l'intervento di Beppe Grillo: «in tre mesi – ha detto il comico riferendosi a Veltroni – ha sciolto il governo, perso il Comune di Roma e disintegrato tutti partiti di sinistra». I fatti sono inconfutabili.

È incomprensibile, ad esempio, la difesa ad oltranza che il quotidiano 'La Repubblica' produce ogni giorno a favore del Partito Democratico. L'attenzione del giornale, ancora oggi, invece che focalizzarsi sul lodo Alfano, si è spostata sulle presunte offese di Grillo e Guzzanti a Presidente della Repubblica e al papa. Riporto le frasi incriminate:

Grillo su Napolitano
«Dicono che offendo il Presidente della Repubblica. Io Morfeo non l’ho mai offeso. Sonnecchia. Firma delle cose. Questo patto della “Banda dei 4”. Ha firmato una cosa… Ve lo immaginate voi Pertini che firmava una legge che lo rendeva immune dalla giustizia italiana? Ma io non mi immagino neanche Ciampi, non riesco neanche a immaginarmi Scalfaro a fare una cosa così».

Guzzanti su Ratzinger
«Tra 20 anni sarà morto è andrà all'inferno dove sarà conteso da due diavoli frocissimi e attivissimi, non passivissimi».

A me non sembrano assolutamente dei turpiloqui, almeno che non si considerino tali anche gli strali che il più gran comico italiano, Dante Alighieri, indirizzava a papi simoniaci e politici. È incredibile la polemica che ne uscita. Sentendo gli interventi integrali di Beppe Grillo e Sabina Guzzanti, ho invece avuto l'impressione che i due comici avessero fatto uno spaccato preciso del panorama italiano e non, come sostiene qualcuno, un favore a Berlusconi. Comici, sempre i comici. Peccato che gli italiani non sappiano più ridere!

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martedì 8 luglio 2008

La vera storia del Negroni


«Il 25 maggio 1868 nasceva a Fiesole il conte Camillo Negroni. Di famiglia nobile e benestante, divenne un vip della sua epoca: vivace, creativo, ribelle, gran schermidore, poliglotta, viaggiatore, era insomma un personaggio che si faceva notare». Così Luca Picchi, autore del libro Sulle tracce del conte. La vera storia del cocktail Negroni (Casa editrice Plan), descrive il nobile italo-inglese ideatore del famoso aperitivo.

La storia del cocktail parte dal Caffè Casoni, in una Firenze multietnica e crocevia di incontri. «Non proprio un caffè nel senso tradizionale – sottolinea l’attuale barman del Rivoire – si vendevano anche profumi e tabacchi». Allora bartender del locale era un giovane Fosco ScarselliMilano-Torino (vermouth rosso Carpano e bitter Campari, successivamente rinominato Americano in onore del pugile Primo Carnera). «Per il conte Negroni – racconta Picchi – il Milano-Torino era una spuma alcolica, non lo convinceva. Così sotto suo suggerimento, Scarselli fece un’aggiunta di gin, a cui il conte fece apporre mezza fetta di arancia per distinguere il suo aperitivo da quello degli altri avventori del locale».
Questo il primo Negroni realizzato: 1/3 di vermouth rosso (probabilmente Martini), 1/3 di bitter Campari, 1/3 di Gordon’s gin (in onore dell’amico Gordon Cummings), uno spruzzo di soda, mezza fetta di arancia e una scorza di limone.
che, un giorno imprecisato fra il 1919/20, eseguì una variante del

Servito in tumbler basso e largo, è necessario però sfatare alcune credenze in merito all'aperitivo. «Nel prepararlo - precisa Picchi – oltre ad utilizzare un bicchiere ghiacciato, scolato successivamente dall'acqua prodotta dallo scongelamento, sarebbe buona norma mettere molto ghiaccio».
Pochi cubetti, infatti, allungano l’aperitivo più di quanto non faccia un bicchiere pieno, che consente invece alla bevanda di mantenersi più fredda a lungo. «Il Negroni – continua – è una specialità, una ricetta vincente: semplice da realizzare, ma soprattutto è molto buono».

Nella preparazione oggi si tende forse ad abbondare con il gin, ma la sua composizione tripartitica è una formula semplicemente perfetta: «il Negroni - precisa - è nato così, ed è rimasto tale. Ovviamente può essere personalizzato e, a chi lo preferisce più secco, ad esempio, si può preparare utilizzando gin a più alta gradazione alcolica, mantenendo così inalterata la tradizionale quantità delle parti».
Ci sono infine varianti più istituzionalizzate come il Cardinale (2/4gin, 1/4 vermouth dry, 1/4 bitter), il Negroni sbagliato (spumante brut al posto del gin, inventato
a Milano al bar Basso), il Negroni Seal (con doppio Vermouth), il Negroski (vodka al posto del gin), il Redhuvber (una variante diffusa soprattutto nel torinese, servito con una spruzzata d'arancia) e altre di foggia tipicamente genovese: il Negroni del Babbo (gin, bitter Campari, vermouth Carpano, succo d'arancio e angostura) e il più morbido Negroni della mamma (senza angostura).

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domenica 6 luglio 2008

Diamante


Mentre il cuore pompava sangue in sincrono con il movimento del corpo, il rumore dei passi mi accompagnava sul sentiero. Ne sentivo il rumore. Il percorso non era difficile, ma avevo solo voglia di perdermi: solo, percorrevo a buon passo la distanza che mi separava dal forte. Avete mai desiderato il frastuono del silenzio? Il vento accarezzare le guance? Questo cercavo: la più profonda solitudine per ritrovare me stesso.

L'incertezza della nebbia nascondeva i miei obiettivi. Non li vedevo, ma sapevo esserci. Non basta la solitudine per essere veramente soli: il rumore dei motori e gli scoppi dei fucili erano lì a ricordarmi che mai sarei stato l'unico. Gambe affaticate, labbra socchiuse e respiro irregolare, mi ricordavano che ero carne. Desideravo la nebbia, volevo perdermi dentro. Così, forse, avrei scoperto chi in realtà fossi. Se lo avessi saputo, avrei vissuto. Le campane del borgo mi ricordavano che la città era poco più sotto, ma quel giorno ero distante. Potevano suonare, abbaiare, sparare: ero solo. Avanzando nella nebbia, contorni liquidi e opachi si facevano a poco a poco nitidi, svelavando d'improvviso le immagini contenute.

Poi il freddo. Quello no, non si poteva allontanare. Era il freddo dell'anima, di quella parte che in realtà non voleva essere sola, che avrebbe voluto condividere con qualcuno l'ascesa . Non c'era nulla attorno a me, ma sapevo esserci il mondo intero. Volevo solo dimenticarmene per un attimo. Pensavo di arrivare in cima e affidare le mie sensazioni ad un taccuino, ma nessuno avrebbe mai potuto capire il mio cammino. Neppure io. Non restava quindi che smarrirsi nel bianco e lasciare che il freddo mi bruciasse le dita.

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venerdì 4 luglio 2008

Genova e il '68



Per chi a metà degli anni Novanta giocava nei giardini di via Digione, il contatto più diretto con il Sessantotto era quella che chiamavamo «cava». Si trattava, in realtà, dei ruderi sventrati dalla frana del 21 marzo 1968, il simbolo di quell'urbanizzazione selvaggia che aveva cambiato per sempre il volto di Genova.
Il '68 e la nostra città: un binomio che spesso mi ha incuriosito e che trova oggi compiuta realizzazione in 'Genova, il '68. Una città negli anni della contestazione', libro a cura di Donatella Alfonso e Luca Borzani, ricostruzione degli avvenimenti più significativi di quel periodo e che raccoglie le testimonianze di chi attivamente vi ha partecipato, fra tutti spicca il contributo di Dario Fo.
Un Sessantotto, quello genovese, che diversamente dall'immaginario collettivo, non si caratterizza esclusivamente per la protesta studentesca, ma anzi, per una molteplicità di esperienze che forse non ne ha consentito il ricordo nella memoria collettiva della città. «La contestazione – sottolinea Borzani – ha coinvolto molti settori, componenti diverse che non hanno saputo coordinarsi e che hanno avuto un effetto relativo sulla visibilità della città. L'immagine di Genova capitale delle Brigate Rosse, ha poi azzerato la complessità degli anni '60, compreso il Sessantotto».

Edito dalla Fratelli Frilli Editori, questo è il primo libro ad affrontare frontalmente il periodo della contestazione nel capoluogo ligure. «Volevamo capire le radici del rapporto tra Genova e la sinistra», sottolinea Donatella Alfonso. «L’idea era quella di un libro che andasse dagli anni ‘60 agli anni ‘80, ma sarebbe stato qualcosa di estremamente complesso. Abbiamo scelto il ’68, un momento di vera rottura. Nella nostra città – continua – quell’anno non si esaurì nella contestazione studentesca, anzi, a dire il vero quello fu un aspetto marginale. Fu l'anno di massima espansione demografica, il porto doveva fare i conti con gli effetti della containerizzazione, mentre le colline con l'invasione del cemento. L’Italsider scendeva in piazza per la prima volta, e il dissenso cattolico faceva sentire la sua voce con il movimento di san Camillo».

La città di quel periodo è quella del sindaco democristiano Pedullà, incerta sul proprio futuro e in piena deindustrializzazione. Sono gli anni dei primi successi di Fabrizio De Andrè, della nascita di Corto Maltese e della rappresentazione al Teatro Stabile delle Baccanti di Euripide nella traduzione di Edoardo Sanguineti. Ma è anche la città medaglia d'oro per la Resistenza, anticipatrice del nuovo protagonismo giovanile e che, alle elezioni del maggio '68, vede la conferma del Pci a primo partito cittadino. Una città storicamente ribelle, ma che vive un Sessantotto in tono minore: «a Genova – ricorda Alfonso – c’erano tre poteri conservatori: l’industria di Angelo Costa, la missione pastorale del cardinal Siri e il Partito Comunista».
Le prime occupazioni risalgono al dicembre 1967, ma la mobilitazione studentesca, eccezion fatta per gli scioperi all’ Asgen e alla Chicago Bridge, non riuscì a saldarsi con le istanze operaie. «L’esperienza dell’Asgen – continua Donatella Alfonso – è un fatto unico: per la prima volta gli studenti si occuparono della salute in fabbrica, per la prima volta gli operai si unirono agli studenti».

Ma a quarant’anni di distanza, di quel periodo di partecipazione cosa rimane oggi?
«Il ’68 – risponde Borzani – è stato una vittoria culturale, ma una sconfitta politica. Un periodo di rottura che ha accelerato il processo di modernizzazione già in atto nel nostro paese, ma la distanza che allora separava i giovani dai propri genitori, oggi è aumentata. Quella era una generazione che si identificava nella categoria stessa dell’essere giovani e dell’affermazione di sé, che tendeva a farsi coincidere direttamente con il futuro. Oggi – continua – i giovani sono invisibili nei loro linguaggi e comportamenti e forse la colpa è anche degli adulti: troppo a lungo continuano a considerarsi giovani. Mentre allora ci fu una riscoperta della politica che portò ad un nuovo tipo di impegno, oggi assistiamo ad una depressione del fare politico, una situazione che unita alla dimensione di consumo, alla povertà o all’eccellenza culturale, getta le nuove generazioni in una condizione di stand by, dove le prospettive per il futuro sono poche».

Le giovani generazioni vivono un presente non facile, quali le differenze tra ieri e oggi?
«Nel ’68 – risponde Donatella Alfonso – c’erano dei diritti da stabilire, la volontà di appropriarsi del mondo. Ai giovani del 2008 mancano forse obiettivi da raggiungere, delle barriere da abbattere e forse un po’ di coraggio. Insomma mancano i padri a cui ribellarsi, ma non può essere solo colpa dei genitori se i figli non hanno una figura a cui rivoltarsi».

Umberto Galimberti scrive che i giovani oggi sono nichilisti. Ma è proprio vero?
«Sicuramente – risponde Borzani – siamo di fronte ad una dispersione del senso collettivo, un nichilismo che prima di essere dei giovani è dell’intera società».

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giovedì 3 luglio 2008

Giorello e i confini delle donne

'Confini' è il titolo di una serie di incontri, conversazioni e presentazioni con prestigiose personalità del mondo della cultura, nell’ambito del Genova Urban Lab Summer Festival 2008. Il cartellone propone circa 50 eventi, tra spettacoli teatrali, di cabaret, mostre e appuntamenti d’arte. Giulio Giorello, autore di numerosi volumi a cavallo tra filosofia e storia della scienza tra cui 'La scienza tra le nuvole', 'La filosofia della scienza nel XX secolo' e 'Di nessuna chiesa', assieme a Nicla Vassallo ha aperto la rassegna con l'incontro 'I confini delle donne'. Ecco l'intervista.

Il titolo della rassegna porta a riflettere sul concetto stesso di confine.
Secondo lei, professore, i confini sono da considerare segni di identità oppure ostacolo alla tolleranza reciproca?
«I confini hanno una loro ragion d'essere, sono i punti che distinguono una regione dall'altra. Funzionano come la pelle di un individuo, separando la regione interna da quella esterna. Detto questo, non devono però essere considerati in termini assoluti, diventerebbero altrimenti un ostacolo allo scambio di idee e alla cultura. Sarebbe più opportuno guardarli in maniera relativistica».

Una caratteristica ambigua, quindi, quella del confine?
«È la sua natura. Prendiamo ad esempio il limite tra Italia e Francia: è italiano o francese? Il confine è uno strumento, e per non farlo diventare mezzo di oppressione lo si deve considerare come tale. È il mezzo che deve servire noi, non viceversa».

Assieme a Nicla vassallo, ne avete parlato in una declinazione particolare. Oggi le donne sono ancora 'confinate' come in passato?
«Sì, purtroppo oggi sono confinate dentro frontiere poco nobili, basti guardare la scarsa presenza femminile negli organismi decisionali. In Italia, poi, questo aspetto è ancor più accentuato rispetto ad altri paesi europei. Ed è innegabile che parte di questo stacco sia da ricercare anche nelle forme di discriminazione perpetrate dalla Chiesa cattolica. In Inghilterra - continua - già nell'800, filosofi come John Stuart Mill e Harriet Taylor volevano realizzare l'eguaglianza ed emancipazione femminile, rompere quei vincoli che limitavano la libertà delle donne. Ecco, oggi il nostro paese paga questo ritardo e se aggiungiamo la complessità della situazione italiana, il razzismo, il timore dello straniero, del diverso, ebbene, ecco spiegata la costellazione di sopruso che deve soffrire l’altra metà del cielo».

Come si possono superare questi limiti?
«Con l'abbattimento e la cancellazione di confini immotivati, degli abusi. Con un rinnovamento della società intera e tenendo ben presente una semplice ed elementare norma: non opprimere gli altri e nemmeno farsi opprimere, perché la rassegnazione è l’altra faccia dell’oppressione».

E la famiglia, come istituzione, non limita la libertà femminile?
«Io la metterei in questi termini: nel 1643/44 John Milton scrisse 'Dottrina e disciplina del divorzio'. Tra le motivazioni previste per lo scioglimento, oltre l'adulterio e l'impotenza a generare dei figli, inseriva l'oppressione di uno dei coniugi sull’altro, una situazione a cui si poteva reagire solo con la ribellione. Una posizione molto libertaria. Questo per dire che in uno stato laico il matrimonio è un contratto, e non vedo perché ci debbano essere contratti più naturali di altri».

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mercoledì 2 luglio 2008

Sarà anche questo il federalismo?

Da mesi soffro di una patologia che mi ha reso la vita invalidante. Mi sono sottoposta a numerose terapie che fortunatamente erano alla mia portata economica, ma con scarso risultato di guarigione.
Durante l'ultima visita sostenuta dall'ortopedico mi sono state prescritte delle sedute di "onde d'urto".
Mi sono rivolta alla Asl della mia città, Genova, e mi e' stato risposto che la Regione Liguria non dispone della strumentazione opportuna. Gli istituti privati dispongono del macchinario, ma ogni seduta ha un costo di 90 euri. Cifra che non mi posso permettere. Potendo usufruire dell'ospitalità di mio figlio che lavora a Milano, mi sono rivolta alla relativa ASL. Mi è stato risposto che dispongono del macchinario ma ne possono usufruire solo i residenti della Regione Lombardia.
Mi sono rivolta così rivolta alla Regione Piemonte, che concede a tutti la terapia. Mi sono prenotata nella città piu' vicina, Tortona, e qui potrò usufruire della terapia pagando il solo ticket.
Mi sono chiesta: la tanto decantata sanità della Regione Lombardia (Santa Rita a parte) è questa? Perche' la Regione Liguria non si dota di tale macchinario? Sarà anche questo il federalismo? Cosa succederebbe se la Regione Liguria riservasse i ricoveri all' Ospedale scientifico e pediatrico più grande d'Europa, l'istituto Giannina Gaslini, ai soli residenti della regione?
Posso assicurare che purtroppo anche i bambini della Lombardia ricorrono alle cure dell'Ospedale Gaslini.

Lettera Firmata

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martedì 1 luglio 2008

Euro 2008


Euro 2008 mi ha dato una speranza: chi gioca bene riesce a vincere. Un amico, alcuni giorni fa, ha scritto che spesso non sono i più forti a vincere. Credo che in quelle parole ci sia molta verità. Se guardo al recente passato, ma anche a quello più remoto, la storia del calcio è piena di esempi in tal senso. Quest'anno, dopo anni di braccino, finalmente la Spagna è riuscita ad imporsi.

Gli iberici si sono dimostrati finalmente squadra. A differenza del Portogallo, che continua ad essere una sorta di dream team, la Spagna ha trovato quella continuità e quella sapienza tattica che nelle precedenti competizioni gli era mancata. Incisiva e pragmatica, in tutta la competizione ha subito solo 2 goal (uno contro la Grecia nell'inutile terzo turno del girone eliminatorio). Mentre l'Italia ha vinto il mondiale tedesco con quella che Baricco chiamerebbe medietà, le furie rosse si sono imposte senza rinunciare al bel gioco. Continuità di rendimento contro eccellenza calcistica: in entrambi i casi c'è risultato, ma che differenza di approccio e spettacolo. Ne I Barbari un capitolo è interamente dedicato al calcio: consiglio agli appassionati di leggerlo, uno spaccato preciso del pallone contemporaneo.

Ebbene, l'Italia è una squadra che ha perso l'armonia per il gioco, non sa più divertirsi nè divertire. L'ultima nazionale che abbia emozionato veramente, è stata quella di Azeglio Vicini e, anche in quell'occasione, la squadra più forte non vinse. Siamo la nazionale della tattica: a detta di Salvatore Bagni, come rimpiango i tempi di Bruno Pizzul, contro Torres e compagni si doveva giocare con una tattica attendistica. Così abbiamo fatto, ma non abbiamo calcolato alcune variabili: Donadoni dagli 11 metri non è fortunato, assieme a Serena fu lui a sbagliare i penalty ad Italia 90. Secondo l'ex giocatore del Napoli, ora commentatore claudicante, attaccare la squadra di Aragones era pericoloso. Questa la mentalità italiana: aspettare e ripartire. Non è neppure catenaccio, è rinunciare volutamente al gioco: esattamente come fece la Grecia 4 anni fa. Contro gli azzurri la Spagna è arrivata ai calci di rigore per un errore di sopravvalutazione, per timore reverenziale, per l'atavica paura di vincere. Ma questa volta, la sorte, ha veramente aiutato gli audaci.

In Austria e Svizzera ha vinto la squadra con l' età media più bassa. Mentre nel team azzurro si discuteva sulla convivenza o meno tra De Rossi (25 anni) e Pirlo (30 anni), Aragones si è presentato alla finale con Fabregas (21 anni), Iniesta (24 anni) e Xavi. Unico interditore Senna. Noi giochiamo esattamente alla rovescia: un solo fantasista e una scorta di giannizzeri attorno. E non è soltanto una questione di nazionale, anche i club italiani giocano in questo modo. Perchè è giusto sottolineare che anche il campionato ha le sue responsabilità. Un torneo eccessivamente esasperato. Questo aspetto, oltre ad essere la causa dei tradizionali scandali estivi, comporta effetti collaterali alla natura stessa del gioco.

I giovani, per esempio, hanno limitate possibilità di esperienza. Arrivano al calcio che conta tardi. Quante volte abbiamo sentito dire a soloni e allenatori, spesso sono la stessa cosa, «si corre il rischio di bruciare il ragazzo». Questo accade, e qui ci metto anche noi tifosi, perchè siamo troppo ossessionati dalla prestazione. Il risultato soprattutto. Ai giovani calciatori, invece, andrebbe la possibilità di sbagliare, non solo in squadre e serie minori, ma anche a grandi livelli. Sergio Ramos ha 22 anni e ha esordito nella Liga a 17: con il Real ha già vinto due campionati e gioca da 3 la Champions League. Ha quindi una certa esperienza a livello internazionale. Prendiamo invece Giovinco, un giovane da grandi palcoscenici. Ha 21 anni, gioca nell'Under 21 e nell'ultima stagione predicava nel deserto all'Empoli: potenziale sprecato. Come dice Albanese-Cettolaqualunque: «in Italia i giovani non sono una risorsa, sono un problema».

Il nostro paese non è sano, e il calcio è un sintomo di questa malattia. Siamo un paese che non sa più divertirsi. Siamo tristi perchè non c'è motivo di essere allegri: basta guardarsi attorno. La corruzione. l'affarismo, i sotterfugi, il cosidetto Italian Style, stanno marcendo tutta la società. E il calcio è la cartina di tornasole. Nessuno lo prende per quello che dovrebbe essere: un gioco. E un gioco, per quanto serio possa essere, deve primariamente divertire. Sia chi lo pratica, sia chi assiste.

Questo gli spagnoli hanno capito: che giocare a pallone può essere divertente, che i giovani sono una risorsa e che vivere aspettando ti fa morire...beh, chi conosce il proverbio, completi la frase.


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