lunedì 28 luglio 2008

A confronto con Guevara


Il 9 ottobre 1967, in Bolivia, moriva Ernesto Guevara De la Serna. Lo stesso giorno di 41 anni fa, a La Hilguera, nasceva il mito del Che. Icona della generazione sessantottina, la vicenda storica e personale di Guevara, ancor oggi si interseca con quegli aspetti sacrali che la società di consumo ha spesso imprigionato in bandiere e magliette. Guerrigliero, soldato e ribelle, il mito del Che rappresenta per molti, e anche per chi scrive, l'anelito libertario di chi decide di sacrificare tutto per un ideale (vita compresa). Simbolo di equità e giustizia sociale, oggi come allora, incarna esigenze di riscatto per tutti coloro che vivono esistenze oppresse.

Aldilà del mito, il Che fu soprattutto un essere umano e, come tale, commise degli errori. Indagare e raccontare il mito nei suoi molteplici aspetti, è l'obiettivo di Dario Fertilio, autore del romanzo La via del Che. Il mito di Ernesto Guevara e la sua ombra (Marsilio Editori). «Il mito – sottolinea l'autore – influenza spesso la storia. Il Che rischiava di persona, si esponeva e il modo migliore per conoscere tutte le sue facce, è raccontarle. Affrontare la molteplice contradditorietà di Guevara in tutte le sue dimensioni, è un modo per mantenerne vivo il mito».

Protagonista della vicenda quasi interamente ambientata all'Avana, Riccardo Modena, direttore editoriale, ex sessantottino con un passato da guevarista, oggi disilluso e alla ricerca dei diari mancanti del Che. «La scelta del genere letterario – rivela l'autore – oltre ad essere dettata dall'ammirazione per il romanzo alla Hemingway, da un lato è funzionale all'esigenza di unire un reportage sulla Cuba di oggi, dall'altro si unisce all'intento di raccontare le aspettative tradite della generazione sessantottina». Riccardo è un uomo stanco, detesta il Natale, le vacanze e continua a vivere un matrimonio ormai esaurito da tempo. Ha creduto nella rivoluzione cubana, ma oggi è convinto che la via del Che non esistesse.

Tra questa disillusione e l'ortodossia del guerrigliero argentino, è possibile una via di mezzo?
«Riccardo Modena – risponde l'autore – è vissuto, si è evoluto, mentre il Che è morto giovane dopo aver dato tutto per la causa in cui credeva. Indubbiamente la posizione migliore tra l'utopismo di Guevara e la disillusione di Riccardo, sarebbe quella di affrontare criticamente il mito, recuperando anche gli aspetti più negativi. Il protagonista del romanzo – continua – ha vissuto intensamente il '68 e, forse, proprio per questo motivo ha ripudiato ciò in cui credeva: troppo doloroso il ricordo del fallimento giovanile. Chi invece ha incontrato il Che più tardi, oggi lo ama».

Sulle pagine del Manifesto, Enzo Di Mauro ha descritto il libro come una storia di agnizione e liberazione interiore dai miti e dai simboli della giovinezza. «Sono d'accordo – ribadisce Fertilio – nel libro c'è questa voglia di confrontarsi con i miti della propria giovinezza e scoprirli falsi. Dal punto di vista politico il messaggio del Che è stato una catastrofe, paragonabile a quello di Trotzky. Ma dal punto di vista personale, il fatto che abbia dato la vita per un ideale, paragonabile per impegno a san Francesco o Garibaldi, ebbene, questo lo rende ancora vivo. Impegnarsi come lui, ma non per le cose che ha scelto».


Scrive Eduardo Galeano: «L'utopia è come l'orizzonte: cammino due passi, e si allontana di due passi. Cammino di dieci passi, e si allontana di dieci passi. L'orizzonte è irraggiungibile. E allora a cosa serve l'utopia? A questo: serve a continuare a camminare». Chiedo a Fertilio: conviene perseguire l'utopia?
«Se individuale – risponde – aiuta a crescere e cambia la vita. Se l'utopia è collettiva, diventa una falsa certezza. John Lennon cantava I don't believe».

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