domenica 30 dicembre 2007

Tristi e depressi?

Qualche giorno fa ho assistito a un episodio curioso: due distinte signore da poco salite sull’autobus si accapigliavano per un posto a sedere. Mi sono venute alla mente le recenti inchieste del Times e del New York Times e, continuando a guardare la scena, ho pensato: tristi, depressi e anche nervosi. Sono questi i sintomi del malessere fotografato dalle inchieste anglosassoni? Dietro a due distinte signore che litigano, si nasconde forse un disagio sociale più profondo? Gli italiani sono davvero tristi e depressi? Non trovando da solo risposte, ho provato a porre ad altri le stesse domande.
«Dopo 3 anni di apprendistato - confida Marta (26 anni, disoccupata) - non mi hanno rinnovato il contratto. Ora sono a spasso e secondo te ho motivi per essere felice?». Non ha seguito il dibattito sui giornali, ma la sua logica stringente non fa una piega. «Avevo il contratto in scadenza a dicembre – continua – ma non pensavo ci sarebbero stati problemi. Se non avessi chiesto, non mi avrebbero dato neanche il preavviso».
Il lavoro sembra essere motivo di preoccupazione anche per Emanuele (27 anni, disoccupato). Laureato in ingegneria informatica, ne viene da due anni di contratto interinale. Esaurito il termine è rimasto senza lavoro. «Per i giovani – dice – è molto difficile disegnare il proprio avvenire. Non ci sono certezze, sembra di essere impotenti. Il merito non conta nulla e gli sforzi profusi non vengono ricompensati». Gli chiedo se l’Italia sia un paese in cui valga la pena vivere. «Si, - mi risponde – a patto però ci si accontenti di sopravvivere. Come si può pensare di rimanere se ad esempio in Spagna mi hanno offerto un lavoro che soddisfa le mie aspirazioni, ben retribuito e soprattutto di prospettiva? Se qui non avessi legami, partirei subito». Parole che mi suonano famigliari. Secondo l’inchiesta del Times, infatti, l’anno scorso il Pil spagnolo è cresciuto del 5%, dal 3% dell’anno precedente. L’Italia invece è andata in direzione opposta scendendo al 3%, dal precedente 5%. Dati alla mano, continuo a chiedere: «Ma gli italiani sono davvero così tristi e depressi?».
Elena, 28 anni, designer in uno studio di progettazione, è sfiduciata dalla politica: «La casta pensa solo alla propria conservazione, manca la volontà di cambiare le cose».
Matteo, 26 anni, impiegato di banca, ha invece seguito la vicenda sui giornali. «Non si può banalizzare, - dice – tutti i paesi industrializzati devono fare i conti con l’inversione demografica e la povertà. Non credo che la totalità degli italiani sia triste e depressa. Sicuramente, rispetto a 20 anni fa, siamo più disillusi. Soprattutto la generazione che sta entrando adesso nel mondo del lavoro, non ha valide ragioni per essere spensierata o ottimista. I giovani vivono l’incertezza della loro collocazione all’interno del mercato del lavoro e, di conseguenza, all’interno della società».
Prosegue il ragionamento Simone, 25 anni, neolaureato: «Io mi sento sconfortato, avverto difficoltà nel raggiungere gli obiettivi che mi piacerebbe perseguire. La nostra generazione ha meno prospettive rispetto a quella dei nostri genitori. Di questo passo, prima o poi, ci saranno violenti scontri sociali». E le generazioni precedenti, cosa ne pensano? Sono felici?. «Io non mi posso lamentare, - dice Maddalena - dopo 35 anni di lavoro mi sono finalmente riappropriata del mio tempo. Ma i miei figli che futuro avranno? Al momento non hanno un lavoro stabile, vivono in casa per necessità. Io ho 58 anni e, presto o tardi, mi piacerebbe diventare nonna!»
«Negli anni ’60 – conclude Antonio – c’era più speranza, c’era voglia di combattere per ottenere qualcosa. Genitori e figli devono scendere in piazza assieme!».
Le nuove generazioni vedono nebuloso il loro futuro, quelle più datate sono preoccupate per l’avvenire dei propri figli. E’ forse questo uno dei motivi per cui americani e inglesi ci vedono tristi e depressi?

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venerdì 28 dicembre 2007

Grazie Scalfari!


Una luce in una società bacchettona ed oscurantista. Grazie Scalfari. Riporto il testo del bellissimo articolo apparso su "La Repubblica" di giovedi 27 dicembre. Per leggere l'articolo direttamente dal sito del quotidiano cliccare sul titolo del post.

"Mi hanno molto colpito i pensieri e le parole scritte nei giorni scorsi dalla senatrice Paola Binetti e da lei affidate in una lettera al "Foglio" che, a quanto lei stessa scrive, è ormai il suo giornale di elezione. Il testo di quella lettera è stato poi integralmente ripubblicato dal "Corriere della Sera". E di nuovo la senatrice ha ripetuto e ancor più estesamente formulato i suoi pensieri in un dialogo sulla "Stampa" con Piergiorgio Odifreddi.

Il tema di questi interventi è singolare. Viene affrontato per la prima volta nel mondo e per la prima volta nella Chiesa cattolica da parte d'un cattolico militante che si riconosce in un partito ed ha un seggio nel Senato della Repubblica. Si tratta dell'intervento di Dio nella formulazione delle leggi, sollecitato dalle preghiere della senatrice devota.
Ricordo il caso per completezza di informazione. Si votò pochi giorni fa in Senato la conversione in legge del decreto sulla sicurezza. Tra le varie norme ce n'era una che configurava come reato di razzismo la discriminazione nei confronti degli omosessuali effettuata con atti o parole di istigazione a discriminare. La Chiesa si allarmò per timore che la sua predicazione che considera l'amore tra omosessuali una devianza contro natura venisse giudicata reato penalmente perseguibile. Reclamò la cancellazione di quella norma e invitò esplicitamente i parlamentari cattolici a votare contro di essa.
Si trattava con tutta evidenza d'un intervento e d'una interferenza che violavano in modo grave le disposizioni concordatarie. Talmente scoperta - quell'interferenza - da richiedere una protesta formale del governo nei confronti della Santa Sede. Protesta che invece e purtroppo non c'è stata.
Il governo però, a sua volta allarmato dai possibili effetti di quell'interferenza clericale, pose la fiducia sul decreto e sui singoli articoli. I molti parlamentari cattolici che fanno parte della maggioranza votarono la fiducia pur con qualche disagio di coscienza. La Binetti, anch'essa con qualche disagio di segno opposto, votò invece contro la fiducia, cioè contro il suo partito e il suo governo, in obbedienza al dettame della gerarchia ecclesiastica romana.
Il Partito democratico nel quale la senatrice milita decise di mostrare comprensione per il suo voto di dissenso e di non applicare nei suoi confronti alcuna censura politica.
Quanto alla norma concernente l'omofobia, essa fu approvata per un solo voto. Quello contrario della Binetti (e l'altro egualmente contrario del senatore a vita Giulio Andreotti) furono infatti compensati da altri voti. Forse ispirati, questi ultimi, dal demonio. Non si sa e non si saprà mai.
Fin qui il caso Binetti. Niente di speciale: un caso di coscienza che avrebbe potuto far cadere il governo il quale riuscì tuttavia ad ottenere la fiducia e passare ancora una volta indenne in mezzo a tante traversie.
Trasferitosi l'esame della legge alla Camera, dove il governo dispone d'una più solida maggioranza, si scoprì però che proprio quell'articolo sull'omofobia era affetto da un errore di redazione. Si menzionava infatti come punto di riferimento della norma una direttiva dell'Unione Europea contenuta in un trattato che risultò non essere quello citato ma un altro. Insomma una citazione sbagliata, un errore di sbaglio come si dice in casi analoghi con qualche ironia.
Per evitare che l'emendamento dovesse nuovamente implicare un voto del Senato, il governo decise alla fine di far cadere l'articolo in questione per poi ripresentarlo in altro modo e con altro strumento legislativo.
Normale gestione d'una situazione parlamentare complicata.
Ma ecco a questo punto insorgere un secondo caso Binetti. Ben più clamoroso del precedente, anche se per fortuna senza effetti parlamentari immediati. E sono appunto le lettere al "Foglio" e il dibattito sulla "Stampa" dove la senatrice sostiene la tesi del miracolo. L'errore di sbaglio, la citazione incomprensibilmente sbagliata non si può attribuire, secondo la Binetti, ad una trascuratezza umana. Quella trascuratezza c'è indubbiamente stata, ma non è né dolosa né colposa. E' talmente macroscopica e impensabile che non può che essere stata effetto d'un "intervento dall'Alto" - così testualmente scrive la Binetti - stimolato dalle sue preghiere.
La senatrice enumera altri casi di leggi e norme da lei ritenute indispensabili per il bene della comunità e della morale, che sono state approvate in Parlamento e da lei attribuite ad altri "interventi dall'Alto", anch'essi stimolati dalle sue preghiere.
Altre norme da lei desiderate e altre preghiere da lei elevate al cielo non hanno invece trovato ascolto (è sempre la senatrice che parla) ma ella non dispera che lo troveranno in un prossimo futuro.
Siamo di fronte ad un caso che, come ho prima accennato, non ha riscontro nella storia né parlamentare né religiosa di nessun Paese. Leggi e norme sull'approvazione delle quali si sarebbero verificati interventi di Dio in accoglienza di preghiere di parlamentari. Come giudicare simili affermazioni? Una presunzione inaudita? Un disturbo mentale? Una fede capace di muovere le montagne e quindi nel caso specifico di ottenere risultati parlamentari altrimenti inspiegabili? Una forma di fondamentalismo ideologico che può suscitare un anti-fondamentalismo di analoga natura ma di segno diverso?
Mi permetto di segnalare alla senatrice Binetti che il tipo di preghiere da lei elevate a Dio affinché intervenga nella legislazione italiana sono decisamente in contrasto con la costante dottrina della religione da lei professata.
E' curioso che la senatrice non se ne renda conto. È ancor più curioso che sia io a segnalarglielo. Ciò crea una situazione a dir poco comica. Divertente. Paradossale.
La dottrina cattolica infatti ha costantemente incoraggiato la preghiera dei suoi fedeli. La preghiera privata ma soprattutto quella liturgica, tanto meglio se effettuata pubblicamente e coralmente nelle chiese o in qualsiasi sede appropriata.
Ha anche indicato - la dottrina - quale debba essere l'oggetto della preghiera. Non già invocare Dio a compiere miracoli su casi concreti come la guarigione da una malattia o, peggio, un beneficio immediato, una promozione, una vincita alla lotteria, l'ottenimento d'un posto di lavoro e simili.
L'approvazione di un articolo o di un comma o la vittoria d'un quesito referendario non sono state mai contemplate in questa casistica, ma ritengo che possano logicamente rientrarvi. Impegnare il nome e l'intervento di Dio in questi "ex voto" avrebbe piuttosto l'aria d'una provocazione e sfiorerebbe la blasfemia violando il comandamento mosaico che fa divieto di "nominare il nome di Dio invano".
L'oggetto della preghiera deve essere solo quello di chiedere a Dio che la sua grazia discenda sull'orante, che lo aiuti a sopportare il dolore e la sofferenza, che non lo induca in tentazioni, che lo liberi dal Male (cioè dal peccato), che fortifichi il suo amore per il prossimo.
Perciò lei fa benissimo, senatrice Binetti, a pregare affinché la grazia discenda su Giuliano Ferrara (nella sua lettera al "Foglio" c'è scritto anche questo) volendo, potrebbe anche cimentarsi a chiedere che la grazia divina scenda su di me. Non me ne offenderei affatto e sarebbe carino da parte sua.
Ma coinvolgere Dio nella discussione parlamentare, questo, gentile senatrice, è una bestemmia di cui forse lei dovrebbe confessarsi. Però da un sacerdote scelto a caso. Se va da sua eminenza Ruini sarebbe sicuramente assolta in terra. In cielo non so.
Post scriptum. "Il giusto modo di pregare è un processo di purificazione interiore. Nella preghiera l'uomo deve imparare che cosa egli possa veramente chiedere a Dio, che cosa sia degno di Dio. Deve imparare che non può pregare contro l'altro. Deve imparare che non può chiedere le cose superficiali e comode che desidera al momento, la piccola speranza sbagliata che lo conduce lontano da Dio. Deve purificare i suoi desideri e le sue speranze".
Queste parole si leggono nell'enciclica "Spe Salvi" di Benedetto XVI, a pagina 64 nell'edizione dell'"Osservatore Romano". Le rilegga, senatrice, e cerchi di capirne bene il senso. Soprattutto non si autogiustifichi: il Papa, nella pagina seguente, ne fa espresso divieto".

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martedì 18 dicembre 2007

"Un soldato sleale" di Giuseppe D'Avanzo

Segnalo e propongo la lettura di questo bell'articolo apparso oggi su la " Repubblica".

"Che il generale Roberto Speciale fosse un soldato sleale, s'era avuto già modo di apprezzarlo. Che un militare che giura fedeltà alla Repubblica e all'osservanza della Costituzione potesse spingersi fino a un gesto eversivo di insubordinazione allo Stato democratico, anche il più severo dei suoi critici non avrebbe potuto immaginarlo.
Invece, è accaduto, accade - ed è la vera questione da affrontare - nell'indifferenza di istituzioni distratte o intimidite, nel silenzio di una politica incapace di guardare oltre la propria mediocre convenienza del momento. Come se in questa storia non fossero in gioco le ragioni prime di una democrazia: la legittimità di un governo eletto dal Parlamento; le sue prerogative di organo costituzionale chiamato ad assolvere il compito di direzione politica del Paese.
E' questa legittimità costituzionale che il generale Speciale, con la sua grottesca lettera di dimissioni, nega, rifiuta, disprezza, umilia. E' alquanto minimalista - quasi gregario - definire soltanto "irrituale" quella lettera, come capita a Romano Prodi. Assai poco convenzionale è per il Quirinale dichiarare - nei fatti - ricevibile quella missiva offensiva per il governo, per poi trasmetterla a Palazzo Chigi.
L'iniziativa di Speciale è davvero soltanto irrituale e il destinatario della lettera può essere correttamente il capo dello Stato? E' difficile sostenerlo e pare grave accettarlo senza batter ciglio.
Il generale infedele sostiene di avere conquistato "il diritto" ad essere comandante della Guardia di Finanza: "gli spetta", dice. E' un diritto che nessuno gli ha riconosciuto. Non glielo riconoscono a parole nemmeno i suoi avvocati, figurarsi se poteva riconoscerglielo con una sentenza la magistratura amministrativa.
Non è, infatti, nella disponibilità di un tribunale amministrativo il rapporto fiduciario del governo, di cui il capo di un corpo militare deve godere. Questa fiducia, al di là delle leggerezze amministrative commesse dallo staff di Tommaso Padoa-Schioppa, Roberto Speciale non ce l'ha, l'ha irrimediabilmente perduta. Tanto basta per dire che mai il generale sarebbe ritornato al comando della Finanza, come conferma anche il ministro dell'Economia.
Al contrario, autoproclamatosi "di diritto" comandante - manco fossimo in una Repubblica delle Banane - il generale, bontà sua, decide di dimettersi. La grammatica istituzionale, nelle sue mosse, degrada a boutade.
Prendiamolo sul serio soltanto per un momento. Ritiene di essere ancora il comandante generale della Guardia di Finanza. Vuole abbandonare, offeso nella sua dignità di soldato. Nelle mani di chi deve farlo, di chi ha il dovere di farlo? La legge è lì per essere rispettata. Articolo 1 della legge 23 aprile 1959, n. 159: "Il Corpo della Guardia di Finanza dipende direttamente e a tutti gli effetti dal ministro della Finanze".
Un principio ordinamentale così netto ed esplicito (inconsueto in un sistema giuridico che ama l'indeterminatezza) avrebbe dovuto imporre al generale Speciale di rimettere il mandato - che si è caricaturalmente assegnato - nelle mani del ministro dell'Economia. Non lo fa perché "non vuole collaborare con questo governo", scrive. Poco male, il governo potrà soltanto guadagnarci.
La faccenda si potrebbe liquidare così soltanto se non fosse assai sinistro che un generale, al comando di 59.874 militari in armi, non accetta di essere alle "dirette dipendenze" di un governo che gode della piena fiducia del Parlamento. Roberto Speciale non ne riconosce il potere, la legittimità, il dovere costituzionale di decidere dell'indirizzo politico e amministrativo del Paese e quindi anche di scegliere chi deve essere o non deve essere alla guida di un corpo, "parte integrante delle Forze Armate dello Stato e della forza pubblica".
Scrive al presidente della Repubblica, perché "è al di sopra di tutto, anche della politica, anche del governo". E' uno schiaffo all'Esecutivo, che non sorprende in un soldato infedele. Stupisce che il Quirinale accetti di ricevere la lettera del generale. Che, implicitamente, acconsenta che Speciale possa dimettersi da una responsabilità che non ha più e che nessuno - tanto meno il governo - gli ha riconosciuto.
Meraviglia che il presidente della Repubblica acconsenta che un generale non si dimetta nelle mani dell'autorità politica a cui è sottordinato, di cui è dipendente. Confonde che il capo dello Stato accetti di svolgere il ruolo del tutto improprio di destinatario di una lettera che abusivamente gli è stata consegnata, chiudendo gli occhi sul disprezzo che il generale assegna al governo per di più prendendo per buono un presunto "spirito di servizio verso le istituzioni".
E' un pericoloso, e inedito, precedente nella storia della Repubblica. Dovremo presto attenderci che il capo della polizia rifiuti di dimettersi nelle mani del ministro dell'Interno o che il capo di Stato maggiore della Difesa non consegni il suo addio al ministro della Difesa, tanto del governo si può fare a meno?
La sensazione è che questo "caso Speciale", nato dalla debolezza del governo e dalla volontà di compromesso con un minaccioso network spionistico e illegale, di cui il generale è stato attore di prima fila, moltiplicherà le sue muffe, se non affrontato con energia. Di compromesso in compromesso, di timidezza in timidezza, siamo arrivati alla delegittimazione dei poteri del governo.
Considerare quel soldato sleale e infedele, come pare fare oggi la maggioranza, soltanto un dissipatore di risorse pubbliche per qualche viaggio a sbafo in elicottero non è una buona strada. Meglio sarebbe ricordare la proposta del generale "tutto d'un pezzo" di violare i segreti d'ufficio avanzata al vice-ministro Visco (e rifiutata). O tenere a mente quando, con il governo di centro-destra, i segreti della Guardia di Finanza diventavano pubblici per essere utilizzati, in piena campagna elettorale, da Silvio Berlusconi con denunce alla magistratura. Pensare di lisciare il pelo a quel soldato e ai soldati come lui, è peggio di una cattiva idea. E' un errore politico e istituzionale".

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lunedì 17 dicembre 2007

Genova e la cultura

Sul sito mentelocale.it, in questi giorni è nata una querelle a proposito della mostra allestita da Maurizio Maggiani a Palazzo Ducale. La diatriba ha portato anche ad analizzare la politica culturale genovese. Io ho così voluto dare il mio contributo.

Premetto di non aver visto la mostra di Maggiani allestita a Palazzo Ducale, preferisco quindi concentrare l'attenzione sul dibattito inerente alla vita culturale genovese. Indubbiamente Genova ha bisogno di più appuntamenti di cartello. Al di là delle notti bianche, è necessaria una politica culturale più audace. La nostra città necessita di eventi che la stimolino non solo dal punto di vista economico, ma anche da un punto di vista intellettuale. Partendo dal 1992, a mio avviso, molto è stato fatto ma, molto (moltissimo), c'è ancora da fare. Ci vuole impegno, programmazione, ma, ahimè, anche fondi per garantire una continuità di proposte qualitativamente accettabili. Se è vero che il calendario 2007 al Palazzo Ducale ha visto come appuntamento principale la mostra su Luca Cambiaso, è pur vero che nell'anno precedente hanno trovato spazio proposte stimolanti: " Romantici e macchiaioli " e " Tempo Moderno ". Siamo lontani, putroppo, da Brescia, ma le mostre in questione, in modo particolare la prima, non avevano nulla da invidiare a " Gli impressionisti e la neve ", il più importante avvenimento della stagione culturale 2004-2005 in occasione delle Olimpiadi invernali a Torino. Ma è inutile guardare al passato. Genova, nonostante abbia mantenuto la tradizionale inclinazione commerciale, ha ormai decisamente orientato la prua verso il terziario. E' necessario, quindi, investire in servizi. E la cultura, in un certo qual modo è un servizio, un dono offerto alle persone. Non è opportuno dormire sugli allori o vivere di rendita. Ma la vocazione mercantilistica di questa città, non sono certamente io a scoprirla! Ed ecco quindi spiegata la mentalità cauta per natura, cronicamente scettica e timorosa di sbagliare, mugugnona, mentalmente pigra e terrorizzata non tanto dal mancato guadagno, ma piuttosto dalla possibile perdita. Questa impostazione caratterizza sia le classi che detengono il potere e che, come ovvio, hanno paura di perderlo, sia i ceti subalterni che, raggiunta la sopravvivibiltà, si chiudono a riccio e, impermeabili ad ogni stimolo esterno, positivo o negativo che esso sia, si adagiano sul presente, perchè, tutto sommato, c'è di peggio. Questo modo di fare, in certi casi, abbraccia anche la cultura genovese. E' molto difficile che si afferminino tendenze culturali ben definite. Ma la solitudine che tormenta l'intellettuale genovese, spesso è la palestra su cui si formano quegli animi sensibili e poetici, di cui F. De Andrè è il più fulgido esempio. Genova vive di fiammate: la Resistenza, il ' 60, il G8.
Nietzche così l'ha descritta: " Quando uno va a Genova è ogni volta come se fosse riuscito ad evadere da sé: la volontà si dilata, non si ha più coraggio di essere vili. Mai ho sentito l'animo traboccante di gratitudine, come durante questo mio pellegrinaggio attraverso Genova."
Il potenziale è immenso, va non solo valorizzato, ma possibilmente incrementato. E' vero, mancano avvenimenti ad ampio respiro che internazionalizzino la città, ma è pur vero che quello che abbiamo di più prezioso lo teniamo ben nascosto, inacessibile ai più. Van Cleve, Rubens, Caravaggio, Van Dyck, Strozzi, Durer, Reni, Guercino: bisogna aver pazienza, Genova ama nascondersi. I genovesi badano al sodo, ma, in una società d'immagine, la forma, purtroppo, ha la sua importanza. Genova non è morta, solo assopita.

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sabato 15 dicembre 2007

Il Dalai Lama tra Usa e Italia - 2


Inserisco l'incipit del discorso tenuto dal Dalai Lama in occasione del conferimento del premio Nobel a Oslo il 10 dicembre 1989 . Per chi fosse interessato ad una lettura integrale, rimando al sito www.dalailama.it


" Fratelli e sorelle.
È un onore e un vero piacere per me essere oggi qui tra voi.
Sono veramente felice di vedere tanti vecchi amici giunti dai più remoti angoli del mondo e di vederne di nuovi che mi auguro di incontrare ancora in futuro. Quando incontro delle persone nelle diverse parti del mondo, questo mi ricorda sempre quanto siamo sostanzialmente uguali: tutti esseri umani; forse vestiti in modo diverso, con la pelle di colore diverso, che parlano lingue differenti. Ma questo è solo ciò che appare in superficie, fondamentalmente siamo gli stessi esseri umani e questo è ciò che ci lega l'uno all'altro. Questo è ciò che ci consente di comprenderci l'un l'altro, di fare amicizia e sentirci vicini. "

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venerdì 14 dicembre 2007

De Sade oggi


Recentemente ho letto "Justine-Ovvero le disavventure della virtù" del marchese De Sade. L'ho trovato estremamente attuale, forse perchè, malgrado lo scorrere del tempo, l'animo umano rimane sempre identico. Nelle pagine del tanto vituperato scrittore, si incontrano personaggi che troverebbero perfetta corrispondenza anche nella nostra società. Brigantesse omicide e violente, nobili voluttuosi e sanguinari, falsari schiavisti, chirurghi zelanti e incestuosi, assassini, frati pedofili, politici ricattatori e monsignori stupratori. I crimini e le perversioni dell'uomo non sono una novità, De Sade ne scriveva tra 700/800. Se oggi fosse vivo e potesse scrivere liberamente, i protagonisti dei suoi libri, alla pari di quelli realmente scritti, sarebbero nuovamente assassini, infanticidi, matricidi, stupratori, usurai, politici corrotti, industriali sfruttatori e preti pedofili. Nessuna novità, quindi, nonostante siano passati più di 200 anni. A corroborare quanto detto, se mai ancora ce ne fosse bisogno, il malcostume che caratterizza proprio in queste ore le pagine della cronaca politica. Ma è l'intera società civile a conoscere un graduale imbarbarimento. Non sono a scrivere per questioni di carattere morale, ma solo per chiedermi se questo possa essere il migliore dei mondi possibili? Io a dire il vero ho più di una perlessità. E Dio? Troppo presente nelle parole di chi si arroga di essere suo tramite, troppo assente nei fatti. Ogni giorno ascolto i suoi rappresentanti sulla terra esprimersi su questioni che vertono dalla cintola in giù; forse, in un mondo dove poco o nulla ha un senso, sarebbe meglio preoccuparsi di anime che, in tempi di globalizzazione e precariato, sono veramente smarrite. De Sade ebbe come unica colpa quella di voler scrivere dell'uomo e sull'uomo, e, come ricompensa, venne bollato come pazzo e rinchiuso in un manicomio fino alla morte. Oggi, forse, la sua lezione sarebbe utile per approcciare senza falsi moralismi alcuni problemi che la società moderna deve affrontare.

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giovedì 13 dicembre 2007

Manifestazione


E' con piacere che inserisco nel blog questo avviso ricevuto via mail da un amico. Chi fosse interessato può lasciare un commento o mandarmi una mail (potete trovare l' indirizzo entrando nel mio profilo). Mi premurerò di fare da intermediario.

" DA GENOVA A VICENZA NO ALLE POLITICHE CHE DEVASTANO I NOSTRI TERRITORI, NO ALLE GUERRE CHE SACCHEGGIANO IL MONDO!


SABATO 15 DICEMBRE TUTTI A VICENZA CONTRO LA NUOVA BASE AMERICANA AL DAL MOLIN, XONTRO LE GRANDI OPERE DEVASTANTI, CONTRO LE POLITICHE GUERRAFONDAIE DI BUSH E CO. PER LA DIFESA DELLA TERRA E DEI BENI COMUNI.

PER CHI FOSSE INTERESSATO STIAMO ORGANIZZANDO DUE PULLMAN PER SALIRE A VICENZA, IL COSTO DOVREBBE ESSERE AL MASSIMO DI 20 EURO, SI PARTE SABATO MATTINA ALLE 8. CHI VUOLE VENIRE ME LO FACCIA SAPERE AL PIU' PRESTO!! "

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mercoledì 12 dicembre 2007

Una testimonianza

Ieri, sul sito di Repubblica, è apparsa un' interessante inchiesta di Federico Pace sull'utilizzo degli stage. Un mese e mezzo fa, più o meno, anche io ne avevo iniziato uno in azienda, una pratica di breve durata che però mi è comunque servita per chiarirmi le idee sul mondo del lavoro. Ho pertanto inviato al Sig. Pace un resoconto dell'esperienza in questione e, oggi, ha trovato spazio sul sito miojob.repubblica.it, un sito correlato a repubblica.it. Riporto qui di seguito il contenuto della mia lettera, che potete direttamente consultare cliccando sul titolo del post.

" Caro Direttore, sul sito di Repubblica oggi ho letto l'articolo di Federico Pace sugli stage. Poichè in un tratto dell'articolo ci si domandava quali fossero le realtà che utilizzano i tirocini in modo distorto, voglio raccontarle la mia esperienza.
A metà settembre, dopo aver terminato il servizio civile all'Arci-Genova, ho sostenuto un colloquio presso una casa di spedizioni. Mi si offriva uno stage di 3 mesi, con possibile prolungamento di altri 3 e successivo inserimento. Richiamato dall'azienda ho cominciato a recarmi in ufficio lunedì 15 ottobre. Passano due settimane, non mi viene fatto firmare nulla e , il presunto tutor dello stage mi consiglia di mentire in caso di controllo dell'ispettorato del lavoro. Seppure dubbioso, vado avanti. Preciso che era la mia prima vera esperienza lavorativa, in quanto laureato da poco in Lettere Moderne. Proprio per questo motivo l'azienda in questione aveva deciso di attivare presso l'Università degli studi di Genova un tirocinio postlaurea. Dopo 2 settimane mi sono recato all'ufficio tirocini dell'Università di Genova, e giustamente, la responsabile mi ha avvertito che la validità dello stage avrebbe avuto vigore a partire dal momento in cui la preside avrebbe posto la sua firma sulla modulistica in questione. Approssimativamente verso il 5 novembre. Io ho reso noto che, in realtà, era già dal 15 ottobre che mi recavo in ufficio e, ovviamente, la responsabile mi ha ammonito sottolineando che in assenza della documentazione opportuna non avrei dovuto recarmi sul posto di lavoro. A mio rammarico io le chiedo: se prima dell'inizio dello stage avessi preteso, come sarebbe stato giusto fare, di avere tutta la documentazione pronta, ebbene, l'azienda mi avrebbe accolto ugualmente? Ho dei dubbi in proposito. Sono passate due settimane, ingenuamente ho creduto alle assicurazioni di persone che considerano i lavoratori solo in termini economici, ho investito il mio tempo e mi sono sentito preso in giro. Non sono alieno da responsabilità, avrei dovuto pretendere il rispetto della legge e non l'ho fatto. Sono a mia volta responsabile. Ma è anche vero che certe cose accadono perchè i lavoratori non sono tutelati sufficientemente. La legge sugli stage (D.M 142/1998), necessita di una revisione. C'è bisogno di un ruolo più attivo degli enti promotori, di modo che le aziende non facciano i loro comodi. Sebbene la mia esperienza sia stata breve, ho comunque potuto constatare tutta un serie di intimidazioni nei confronti dei lavoratori. Intimidazioni che soprattutto per un ragazzo alle prime armi, hanno sortito l'effetto di ammutolirmi. Io del resto ho 26 anni, i miei genitori sono pensionati e mio fratello è disoccupato. Ho bisogno di un lavoro. Forse per questo motivo non ho preteso. Necessità. Vuole sapere perchè un ragazzo o una ragazza accettano uno stage/tirocinio? Perchè spesso, soprattutto in sede di colloquio, questo mezzo viene presentato come una possibile porta di accesso al mondo del lavoro. Da alcune agenzie interinali mi sono sentito consigliare di non perdere simili possibilità, perchè strumenti con cui le aziende inseriscono i propri effettivi. E' bene però sottolineare che alla fine del periodo stabilito, l'ente ospitante non ha alcun obbligo nei confronti del tirocinante. C'è quindi la possibilità di lavorare 6 mesi senza vedere l'ombra di un quattrino e, come ultima beffa, vedere disattese le speranza su cui si era investito per mesi. Siamo oltre i contratti a tempo determinato, questo è sfruttamento a termine di legge. Sinceramente mi sento frustrato, sull'autobus mi trovo inconsapevolmente con le lacrime agli occhi. Io vorrei scrivere su qualche testata giornalistica, ma, per avere una possibilità di emanciparmi devo percorrere strade che mio malgrado devo accettare. A questa, che vi posso assicurare è fonte di di disorientamento e sconfitta, spesso si deve aggiungere l'umiliazione di essere sfruttati.Io mi chiedo e vi chiedo: che futuro ha questo paese? Chi mi può aiutare? Poche risposte, poche speranze. "

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Il Dalai Lama tra Usa e Italia - 1

Recentemente il Dalai Lama ha ricevuto dal Congresso americano la Medaglia d’Oro, la massima onorificenza civile che il Parlamento di Washington possa conferire. Ad officiare la cerimonia, George W. Bush in persona. Il presidente americano ha definito il leader spirituale un “ simbolo universale di pace e tolleranza ”. E ancora, rivolgendosi direttamente al governo cinese, ha così solidarizzato con la causa dell’indipendenza tibetana: “ E’ nel vostro interesse, scoprirete che è un uomo di pace e di riconciliazione ”. Trovo curiose le parole di Bush. Volendo tacere sulla politica estera americana dal secondo dopoguerra fino alla fine del secolo, gli Stati Uniti, dal 2001 ad oggi, non sono certamente stati i paladini della pace e della tolleranza. Le torture di Abu Graib, Guantanamo, i sequestri della Cia e i bombardamenti al fosforo bianco, non sono mie opinioni, ma fatti sui quali l’opinione pubblica internazionale ha versato fiumi di inchiostro. La “disinteressata” ospitalità americana stride, invece, con la freddezza con cui le istituzioni italiane hanno accolto il Dalai Lama. Il Governo non lo riceverà, Napolitano e Ratzinger neppure, il sindaco Moratti e i ministri Melandri e Bonino, solo in via strettamente personale. Solo Veltroni, Formigoni e Chiamparino, onore al merito, gli daranno udienza. La verità è che, mentre Bush strumentalizza la visita del Dalai Lama in funzione anti-cinese, l’Italia in virtù dei cospicui rapporti commerciali, non vuole irretire Pechino, che vede nel leader tibetano un pericoloso sobillatore. Mentre " l’elogio americano della tolleranza " nasconde le paure di un paese che vede nella Cina un pericoloso concorrente nella strategia di controllo delle risorse energetiche (guardare a proposito il film Syriana), l’indifferenza italiana, invece, rivela l’ipocrisia con cui nel nostro paese si guarda al gigante orientale. Da un lato, si agita lo spauracchio della concorrenza orientale, ma dall’altro, invece, quante sono le aziende che delocalizzano in Cina, ne sfruttano l’immenso serbatoio di manodopera sottraendo così ricchezza e occupazione al nostro paese, immettendo poi sul mercato un prodotto maggiormente concorrenziale? Le prospettive di crescita cinesi spaventano il mercato occidentale, ma nessuno si azzarda a denunciare la mancanza di diritti sindacali della classe operaia cinese. Ieri la presenza del Dalai Lama tornava utile a Bush, oggi è invece scomoda per l’Italia. Il motivo è però per entrambi identico: economico. Alla faccia dei diritti civili e della causa tibetana. Io, nel piccolo del mio blog, vorrei solidarizzare sinceramente con il Dalai Lama e con la causa dell’indipendenza tibetana. Va ricordato che durante la Rivoluzione Culturale i cinesi uccisero 1200000 tibetani e distrussero oltre 6000 monasteri, di cui molti secolari. A tutt’oggi il XIV Dalai Lama è in esilio. A questo proposito consiglio la lettura di T. Terzani- “ La fine è il mio inizio " e la visione di " Sette anni in Tibet ".

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martedì 11 dicembre 2007

Lavoro, leggi e sicurezza


Nonostante avesse posto la fiducia, il governo Prodi sul pacchetto sicurezza ha vacillato al limite della caduta. Ironia della sorte, proprio mentre in Senato si discuteva, la sicurezza era un tema di estrema attualità in quelle ore. Un aspetto della sicurezza, però, che troppo spesso viene colpevolmente ignorato e sottovalutato: la sicurezza sul lavoro. Dal 2001 ad oggi, ci sono stati circa 8000 morti sul posto di lavoro. Si spendono soldi per rifinanziare guerre travestite da missioni di pace, mentre troppo poco si investe per tutelare i lavoratori e garantire loro la necessaria sicurezza . Nelle fabbriche, nei cantieri e sulle banchine dei porti, le persone continuano a morire. Dopo l'11 settembre, in Italia, il lavoro ha certamente fatto più morti che il terrorismo internazionale. Deduco, quindi, che in un'ipotetica graduatoria di priorità, le cosi chiamate "morti bianche", dovrebbero avere precedenza sull'esportazione della democrazia. Mi aspetto, quindi, investimenti proporzionati a seconda delle priorità in questione. Non è forse un problema di pubblica sicurezza garantire l'incolumità dei lavoratori nell'adempimento delle loro funzioni? Mi chiedo questo, perchè se Prodi afferma che la sicurezza sul lavoro è sufficientemente regolata dalla vigente legislazione, è bene ricordare che certe norme del pacchetto sicurezza appena approvato, sono quanto meno ridondanti. Infatti il decreto n 54 del 18 gennaio 2002 del Presidente della Repubblica all'art 1 com. 1 cita: "I cittadini di uno Stato membro dell'Unione europea hanno libero ingresso nel territorio della Repubblica, fatte salve le limitazioni derivanti dalle disposizioni in materia penale e da quelle a tutela dell'ordine pubblico, della sicurezza interna e della sanita' pubblica in vigore per l'Italia". Questo per dire che molto spesso le azioni del fare politico si concentrano sui problemi a seconda che questi suscitino più o meno clamore. Gli stranieri e, in particolar modo i rumeni, vengono avvertiti come un imminente pericolo sociale: è stata addirittura approvata una legge su misura per le loro espulsioni! Per inciso, vorrei ricordare che proprio la nazionalità rumena, tra le straniere presenti in Italia, è quella che paga il più alto prezzo in termini di morti sul lavoro. I morti della ThyssenKrupp, purtroppo, sono gli ultimi di una serie inaccettabile di veri e propri "assassinii". Luciano Gallino su la " Repubblica" di venerdì 7 dicembre ha sottolineato come oggi, forse più di ieri, la cultura d'impresa abbia come priorità la produzione, il fatturato, il bilancio e la competitività, a scapito del destino delle persone artefici del buon andamento dei parametri appena citati. I diritti dei lavoratori e le condizioni generali di lavoro sono regredite di almeno 50 anni, con buona pace dei sindacati che oggi si affannano in j'accuse, ma che ieri hanno firmato un patto sul welfare che ha trovato dei fieri oppositori proprio nei lavoratori dell'industria pesante. L' Italia è una Repubblica basata sul lavoro? Che il Governo si adoperi affinche l'Italia non sia una Repubblica basata sulle morti nel lavoro.

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Quale integrazione

Per iniziare inserisco una lettera che avevo inviato in data 07/11/2007 alla redazione di Anno Zero. Entrando nella sezione dedicata alle lettere, la potete consultare nel sito della trasmissione con il titolo "Quale Integrazione?" . Vi riporto qui di seguito il suo contenuto.

Gentile Redazione, vi scrivo perchè sono preoccupato. Oggi sulla metropolitana ho assistito ad un dialogo che mi ha dato la misura di come l'intolleranza nella nostra società sia coperta da un leggero velo di Maya, pronto ad essere squarciato non appena un evento di cronaca vada a turbare la sensibilità pubblica. Il sunto della conversazione era che con "quella gente lì", indicando con tale perifrasi rom, rumeni ed estendendo il significato a tutti gli immigrati, ebbene, non possa esserci integrazione. Il termine "integrazione" merita un approfondimento. Se per integrazione si intende assimilazione di una cultura ad un'altra, credo che in una tale accezione il termine sia surrogato di prevaricazione. Se per integrazione, invece, si intende convivenza civile tra due culture diverse che trovano un punto di contatto, di scambio e di rispetto, allora il termine acquista un significato positivo e di grande prospettiva. Nel sentire comune, oggi, gli immigrati vengono percepiti come pericolo sociale. Il martellamento mediatico e la risposta politica hanno fomentato paure e odii repressi. Questi sono sintomi. Sintomi di una società malata. L'innalzamento dell'età media non si accompagna ad una prospettiva di vita qualitativamente accettabile. Precariato, salari e pensioni basse, perdita del potere d'acquisto per i redditi medi, sono principi generatori di insicurezza sociale. Insicurezza misurabile dall'approccio con cui, di questi tempi, si sta affrontando il tema immigrazione. La risposta politica dettata dall'ondata di indignazione a seguito del feroce episodio romano, corre il rischio di essere frettolosa e insufficiente. I fatti di Roma sono una tragedia assurda e insensata e tutta la mia solidarietà va ai famigliari della vittima. Bisogna, però, affrontare il problema in maniera lucida e razionale, per poter dare così una risposta che sia garanzia per tutti coloro che vivono sul territorio italiano. E' utile a questo fine il decreto "tolleranza zero"? Il decreto n 54 del 18 gennaio 2002 del Presidente della Repubblica all'art 1 com. 1 cita: "I cittadini di uno Stato membro dell'Unione europea hanno libero ingresso nel territorio della Repubblica, fatte salve le limitazioni derivanti dalle disposizioni in materia penale e da quelle a tutela dell'ordine pubblico, della sicurezza interna e della sanita' pubblica in vigore per l'Italia". E' bene poi tener presente che nel nostro paese più dell'80% dei reati rimane impunito. Io allora chiedo, servono altre leggi o, più semplicemente, basterebbe applicare alla lettera quelle che già ci sono? Il nuovo decreto offre più poteri ai prefetti che potranno così provvedere ad espulsioni più veloci. Non ci saranno espulsioni di massa ma, intanto, l'Unione europea sta monitorando il nostro paese. Con il nuovo decreto le espulsioni sono immediate nel caso in cui il soggetto costituisca un pericolo per la pubblica sicurezza. Non posso però fare a meno di chiedermi se un lavavetri sia o meno un pericolo sociale? Il mio non vuole essere un atteggiamento "paternalistico" a favore degli immigrati. Non concordo con chi si fa portavoce di una solitarietà ad oltranza. I cittadini stranieri, come quelli italiani, hanno diritti e doveri. Molto spesso, però, chiediamo che ottemperino ai secondi senza garantirne i primi. Il risultato è sotto gli occhi. Si sgomberano campi nomadi, si parla di tolleranza zero ed espulsioni più veloci, ma il crimine e l'illegalità non cessano di colpo. Politiche di inclusione, applicazione della legge e certezza della pena sono la soluzione. Tanto per gli stranieri, ma anche per gli italiani.

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