domenica 28 giugno 2009

Genova Pride 2009



Una delle manifestazioni più belle a cui abbia mai partecipato.
Ecco qualche istantenea dal Genova Pride 2009...


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sabato 27 giugno 2009

Ciao Michael, Smooth Criminal



Non sono mai stato un grande fan di Michael Jackson, ma essendo un figlio degli anni '80, la sua musica mi ha accompagnato forzatamente lungo il percorso di crescita musicale. Devo ammettere, però, che ultimamente il suo personaggio mi inquietava. Chiuso a Neverland, le sempre meno frequenti apparizioni pubbliche, le accuse di pedofilia, il volto ormai tumefatto dagli interventi chirurgici: devo essere sincero, non è che fosse un personaggio che amassi particolarmente. Detto questo non posso che arrendermi all'evidenza: è stato una delle icone pop più forti degli ultimi 30 anni. A contendergli lo scettro del più grande, a mio parere, c'è solo MADONNA!

Un ricordo di Michael Jackson, comunque, lo voglio lasciare anche io, un pò diveso dagli altri però. Dato che a suo modo è stato davvero un innovatore, proiettato in avanti rispetto al suo tempo, quale immagine migliore se non quella che ne dà Robert Zemeckis in Ritorno al Futuro 2? Icona di se stesso, imprigionato dentro la Tv, leggendo ricette di cucina e litigando con una guida musulmana!
Una rappresentazione ironica che restituisce in toto l'ambiguità di un personaggio destinato comunque alla legggenda pop.

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giovedì 25 giugno 2009

Manituana: quando la Storia è sbagliata




Manituana: una storia dalla parte sbagliata della Storia. Così recita la copertina del libro di Wu Ming. La vicenda, ambientata nel continente americano durante i primi vagiti della Guerra d’Indipendenza, è un ottimo spunto per riflettere sulla nascita degli Stati Uniti d’America. Il racconto del collettivo bolognese si concentra sulle vicende della cosiddetta Confederazione Irochese, nazione di nativi americani il cui territorio comprendeva parte dell’attuale Canada meridionale e del nordest degli Stati Uniti. All'interno di quest'area, da decenni, convivevano coloni e indigeni, un mondo meticcio abitato da indiani, irlandesi, scozzesi, tedeschi, protestanti e cattolici. Un pacifico e bellissimo Meltin' Pot che a breve sarebbe stato scosso dai rumori sempre più pressanti della guerra: la cosiddetta Rivoluzione Americana. Lealisti contro miliziani, esercito regio contro coloni, inglesi contro americani. Il succedersi degli eventi chiamerà così la Confederazione ad una scelta: fedeltà a Re Giorgio o alle milizie coloniali?

La tradizionale versione accademica, soprattutto in virtù della filosofia illuminista ed empirista, propone di questo periodo un racconto che pone particolare enfasi all'anelito libertario che mosse le 13 colonie d'oltreoceano. A me, invece, piace porre l'accento su quelli che furono i veri motivi dell'indipendenza. Se di libertà si vuole parlare, in questo caso, è bene accompagnare il sostantivo con l'attributo economica. È indubbio, infatti, che il regime fiscale inglese, soprattutto dopo la Guerra dei 7 anni, fosse motivo di impedimento allo sviluppo coloniale americano. Non solo, ma l'atteggiamento di Buckingham Palace nei confronti dei sudditi d'oltremanica era paragonabile a quello che la corona aveva nei confronti di qualsiasi altra colonia: attenzione alla salute dell'impero, ma non ai singoli particolarismi regionali. Ma più profondi, a mio avviso, furono i motivi del malcontento coloniale. Ragioni da ricercare soprattutto nella procrastinata espansione territoriale.

Nel 1763, infatti, al termine del conflitto con i Francesi, Giorgio III emanò la cosiddetta Proclamation Line: l'intento inglese, al fine di stabilizzare i rapporti con i nativi americani, soprattutto con quelli che risiedevano nei territori ex-francesi, era quello di disciplinare l'espansionismo coloniale, ponendo gli Appalacchi come estremo confine occidentale. I coloni americani percepirono tale misura come un atto di dispotismo e di inaccettabile limitazione della libertà, soprattutto in virtù del recondito desiderio di appropriarsi delle mitiche terre occidentali. Da qui il malcontento verso una madrepatria che, a loro avviso, tutelava maggiormente gli interessi di 'selvaggi inferiori'. Se a queste, si sommano anche quelle più spiccatamente economiche, il quadro delle ragioni americane è completo.

Ed è in questo complesso scenario storico che si inserisce la storia di Manituana e della Confederazione Irochese. Una nazione che decise di rimanere fedele al Padre Inglese, soprattutto per motivi di mera sopravvivenza. L'atteggiamento di Londra, soprattutto nei confronti degli indigeni americani, molto assomigliava a quello che l'Impero Romano imponeva alle popolazioni assoggettate: concessione di una formale autonomia che ovviamente rispondeva a esigenze di controllo inglesi. Tale libertà, ovviamente, strideva con gli interessi e le brame di sviluppo delle colonie americane.

Nelle pagine di Wu Ming e nel tentativo degli Irochesi di opporsi alla libertà dei coloni, si può leggere chiaramente l'anticipazione del massacro indiano, di quel sangue di cui troppo spesso sono macchiate le mani delle moderne democrazie. L'autonomia dei futuri Stati Uniti d'America, passa sì dall'anelito libertario delle colonie, contrapposto all'autoritarismo tipico dell'Ancient Regime, ma passa anche per quelle istanze tipiche del capitalismo che, troppo spesso, guardano al sacrificio del più debole come un effetto collaterale lungo la strada dello sviluppo.

Nelle pagine di Manituana il rozzo possidente Jonas Klug acquisisce con l'inganno terre indiane da secoli nelle mani degli indigeni della valle del Mowack. È l'alcool il grimaldello con cui li droga. Terra, sempre la terra. Chissà se il diritto naturale alla proprietà sia davvero il lavoro: gli indiani non la pensavano così e sono stati sterminati.
Parafrasando Fabrizio De Andrè: davvero una Storia sbagliata.

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domenica 14 giugno 2009

Cima Bertrand: alla prossima!



Perdere. Un verbo che a chiunque non piace mai declinare. Eppure spesso nella vita è necessario farlo.

Di recente sono stato sconfitto, ma mai avrei creduto di provare tanto piacere nel soccombere. Partito da Upega alla volta del Monte Bertrand (2484 mt), dopo ore di cammino e fatica, non sono potuto salire in vetta. La neve era troppa. Il sentiero, invaso da bianche lingue gelate, perdeva il tracciato per riprendere il suo itinerario pochi metri innanzi. Poco spazio mi separava dalla meta, eppure ho dovuto desistere e riconoscermi sconfitto di fronte al monte. L'amarezza non è stata poca. La cima innevata sembrava guardarmi con soddisfatta aria di sfida: impotente non ho potuto che tornare indietro. Rammaricato, ma contento.
Felice per aver comunque tentato, per aver provato e aver conosciuto.
Che cosa mi fa rendere meno amara la mancata ascesa finale? Il sapore della scoperta. Nuovi luoghi, la natura e i miei limiti: la consapevolezza della mia finitezza applicata alla bellezza che mi circonda ogni giorno.

Cima Bertrand: alla prossima!

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