mercoledì 28 gennaio 2009

Il sequestro Moro


Dal 10 febbraio 2009 al Teatro Ambra Jovinelli di Roma va in scena Aldo Moro. Una tragedia italiana di Corrado Augias e Vladimiro Polchi. Ecco la mia recensione in anteprima.


Alle 9.15 del 16 marzo 1978, in via Fani a Roma, la Fiat 130 con a bordo Aldo Moro venne bloccata e crivellata di colpi. Cinque uomini della scorta uccisi e il presidente della DC sequestrato.
Aldo Moro. Una tragedia italiana inizia così, con una sequenza del rapimento tratta dal film Piazza delle cinque lune di Renzo Martinelli.
Tramite la riproposizione delle lettere di Moro, interpretate da Paolo Bonacelli, viene proposta un'attenta ricostruzione dei 55 giorni di prigionia del presidente democristiano.
Lo spettacolo ha il taglio del reportage giornalistico e, attraverso le didascalie recitate da Lorenzo Amato, vengono ordinati spezzoni di film (Buongiorno notte di Bellocchio e Piazza delle cinque lune di Martinelli), commenti, immagini d'archivio, lettere e documenti.
Agli interrogativi di Pasolini e Sciascia, si alternano i comunicati delle Br e lo strazio delle parole dello statista, fino al drammatico epilogo.

Lo spettacolo tende a porre l'accento proprio sulla vicenda umana, sulle concezioni che si confrontarono nell'emergenza di quei giorni.
Da un lato i sostenitori della ragion di Stato, decisi a non concedere alcunché ai rapitori, dall'altro i partigiani della vita umana, considerata come bene assoluto al di là di ogni valutazione.
Sono proprio le parole del prigioniero a portare dentro il dilemma, alla contrapposizione tra Polis e Pietas.
Le lettere indirizzate a Benigno Zaccagnini (segretario della DC), a Francesco Cossiga (Ministro dell'Interno), a Papa Paolo VI, alla moglie Noretta e alla figlia Agnese, ci restituiscono un Moro che è al contempo uomo politico, padre, marito e credente. Un uomo che vive nella paura della morte imminente, che supplica all'azione gli amici di un tempo e che pone, pesante come un macigno, il problema delle responsabilità.

«Lo dico chiaro: per parte mia non assolverò e non giustificherò nessuno» (lettera a Benigno Zaccagnini). Queste le parole che pesano sulle coscienze degli attori di una tra le vicende più controverse dell'Italia post-repubblicana.
E ancora: «Che la condanna sia eseguita, dipende da voi. Se voi non intervenite, sarebbe scritta una pagina agghiacciante nella storia d'Italia. Il mio sangue ricadrebbe su di voi, sul partito, sul Paese».
È quel voi a porre più vivida che mai la questione della colpa. Non solo quella materiale degli aguzzini, ma anche quella morale dello Stato.
E infine, nelle parole indirizzate alla figlia, si coglie il dolore del distacco, il disincanto di un uomo che ha lottato per la vita, di un padre sconfitto dalla ragion di Stato: «Mia dolcissima Agnese, volevo dirti (e lo faccio male) tutto il mio amore e l'angoscia di doverti lasciare. Ricordo la tua dolce faccina (campagna, fiori e altre cose). Ti sono stato sempre vicino con tutto il cuore, anche se posso avere sbagliato, posso non averti capito. Di qui qualche breve strillotto. Ma poi subito dopo il sorriso, l'abbraccio, la richiesta affettuosa. E l'attesa la sera, angosciata, finchè non fossi tornata» (lettera non recapitata ad Agnese Moro)».

Un teatro d'impegno civile che porta a riflettere, a documentarsi ma soprattutto a sentire.

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