domenica 12 ottobre 2008

Migranti: identità ed integrazione


Alcuni mesi fa, in occasione del convegno Giovani e migranti nelle città globali - Culture, identità e appartenenze, a cui hanno partecipato studiosi provenienti da diverse parti del mondo, ho contattato Francesca Lagomarsino, sociologa e assegnista di ricerca, collaboratrice di Luca Queirolo Palmas, docente di Sociologia dell'Educazione e Sociologia delle migrazioni presso la facoltà di Scienze della Formazione dell'Università di Genova. Credo che l'intervista sia ancora molto attuale. Eccone il contenuto.

Identità, culture e senso di appartenenza. Concetti che portano a riflettere sui vari modelli di integrazione: qual'è il vero significato del termine?
«I modelli - risponde la dottoressa Lagomarsino - sono sostanzialmente tre. Il primo è quello assimilativo, dove uno dei due soggetti coinvolti nel processo dismette la propria identità e assume cultura, costumi e stile di vita dell'altro. Il secondo è quello pluralista, dove entrambi i gruppi godono di stessi diritti ma restano di fatto separati, ognuno mantiene la propria identità senza di fatto operare alcuna interazione. Il terzo - conclude - è quello interculturale. Un modello che prevede il cambiamento di entrambe le parti attraverso uno scambio reciproco».

L'ultima interpretazione sarebbe il fine a cui aspirare, ma il cammino mi sembra lungo e tortuoso. Per strada spesso sento dire: «con quella gente lì non può esserci dialogo». A colpirmi non è tanto l'esclusione del confronto, ma piuttosto il riconoscere qualcuno diverso, estraneo dal proprio sentire. Una contrapposizione che rasenta quasi lo scontro di identità e mi chiedo se la società italiana sia pronta al modello multiculturale?
«Sicuramente - risponde - i processi di cui stiamo parlando non si realizzano in tempi brevi. L'Italia conosce l'emigrazione da poco e la creazione di una società multietnica non avviene nel giro di pochi anni e indubbiamente la paura è un fattore con cui confrontarsi».

La paura. Questo sentimento, soprattutto se indirizzato nei confronti dei cittadini stranieri, può essere considerato un sintomo?
«Non si può negare che sia un indizio, alimentata da moltissimi fattori: precariato, difficoltà economiche, incertezza del futuro e anche da un certo sensazionalismo mediatico. Non è tanto paura dell'altro in sé, quanto delle possibilità che l'altro può sottrarre al singolo».

Si spieghi meglio.
«Abbiamo constatato - chiarisce - come molti genovesi abbiano badanti straniere e, intervistati a proposito, tendano a dare una valutazione positiva del rapporto con il cittadino straniero. Diversa, invece, l'opinione che hanno del gruppo. C'è uno stacco tra il processo individuale e quello collettivo. Insomma, si pretende che i cittadini stranieri ottemperino solo a doveri. Il lavoro da fare - conclude - sta nel passaggio dal particolare al generale».

Nella nostra città sono molte le realtà che operano per una maggiore coesione sociale. Mi riferisco ad associazioni, sindacati e patronati che si impegnano ogni giorno per ridurre i disagi dei cittadini stranieri, soprattutto con la burocrazia dei permessi di soggiorno. A me pare ci sia un certo scarto tra l'atteggiamento locale e quello nazionale.
«Non posso parlare - sottolinea - per tutte le realtà italiane. Posso però dire che a livello nazionale i fondi stanziati per l'integrazione stridono con gli intenti dichiarati. Investire in politiche inclusive è fondamentale per prevenire il disagio».

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