mercoledì 18 marzo 2009

Slow Food


Torno a scrivere dopo un lungo inverno. Torno a scrivere perchè ho qualcosa da dire. Potrei scrivere delle mille cose che mi fanno incazzare, di precariato, di tristezza, di lavoro, dell'essere umano o di quello che mi sta passando per la testa in questo periodo così difficile da raccontare. Potrei scrivere di sogni interrotti, di utopie tramontate, di amori mai nati, di sensi di colpa oppure di nulla. Ma oggi preferisco scrivere di qualcosa che vale la pena essere vissuto. Di qualcosa che faccia sentire vivi.

Genova è una città strana. Troppo piccola e grigia alcuni giorni, troppo bella e commovente in altri. Odiosa e scontrosa, a volte, sa farsi detestare con puntualità proprio da chi più la ama. Ma, quando meno te lo aspetti, capisci che non puoi farne a meno, che è il posto dove sei nato e quello dove vorresti morire. Forse è cosi per tutte le cose: l'abitudine crea assuefazione alla bellezza. E allora succede che durante l'ora di pranzo si preferisca non mangiare in mensa, ma scendere lungo san Lorenzo e imboccare poi Sottoripa. Lasciarsi alle spalle la pasta servita in coppette-gelato e buttarsi in quella selva di odori che alterna chioschi, pescherie, call center e enoteche.

Succede così di essere sedotti dall'odore di frittura, di desiderare fortemente baccalà fritto, panisse e un bicchiere di rosso. Capita di mangiare su un ripiano sporchissimo e ingombro, ma va bene così. È la sporcizia della genuinità. Capita di incontrare una coppia di tedeschi che si lecca i baffi, capita di provare un orgasmo di gusto. E poi, dopo aver pagato, riattraversando bancarelle e nuove botteghe, ti soprendi a pensare: «Che si fottano le ronde».

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